Una delle cose che chi vi scrive preferisce dei videogiochi di una volta, è la loro immediatezza: senza nulla togliere alla narrative complesse e al gameplay stratificato, alcune delle esperienze videoludiche che ho più care nella memoria sono legate a giochi dalle meccaniche estremamente semplici e intuitive: i primi platform 3D degli anni Novanta, i giochi di go-kart, il sistema a turni nei giochi di ruolo. Tutti concept dotati di grande pulizia, quasi essenziali ma non per questo avari di contenuto, e che erano fonte inesauribile di divertimento.
Il piacere di questo tipo di esperienza stava non nella complessità del sistema, ma nelle infinite variazioni sul tema: quanti videogiochi hanno alla loro base la corsa, il salto e lo sparo? Migliaia e migliaia, eppure sono due azioni che non stanchiamo mai di intraprendere. Ovviamente ci dev’essere un bel comparto artistico e un efficiente comparto tecnico a far da corredo a un game design essenziale, ed è proprio il caso di Steel Seed, opera quarta dello sviluppatore romano Storm In a Teacup, team indipendente che si è fatto le ossa con esperienze di piccola e media scala, caratterizzate da gameplay basilare ma corredato da una grande atmosfera (vedasi i casi di Enki, N.E.R.O. e Lantern, quasi dei walking sim con spruzzate puzzle), che è pian piano cresciuta fino all’opera più recente, l’avventura esplorativa a tinte di detection sci-fi Close to the Sun (di cui peraltro è presente un flebile legame tematico in questo gioco).
Alzando leggermente il tiro rispetto alle opere precedenti, lo studio romano ha imbastito un’esperienza action-adventure di più ampio respiro, pur rimanendo saldamente ancorata ai suoi principi di immediatezza e semplicità di meccaniche. Senza l’ambizione di rivoluzionare il genere di riferimento, ma con il chiaro obiettivo di offrire un’esperienza divertente e sapientemente equilibrata, SIaT ha confezionato un AA di tutto rispetto, che esce in una finestra di lancio particolarmente indovinata, un periodo di calma apparente che può contribuire a catalizzare l’attenzione su di sé prima dell’estate, prima che la vela di Nintendo appaia all’orizzonte catalizzando inesorabilmente ogni attenzione.
Anima ai siliconi
Il titolo di questo paragrafo, oltre ad omaggiare il mio episodio preferito della serie animata di Batman degli anni Novanta, è anche particolarmente calzante a descrivere la protagonista di Steel Seed, la cyborg Zoe: risvegliatasi da una stasi in cui versava da chissà quanto tempo, la giovane si ritrova a vagare per un’enorme struttura sotterranea, avveniristica e al contempo minacciosa, con una memoria assai lacunosa circa la propria identità. Affiancata dal drone tuttofare Koby, Zoe ha l’obiettivo di ricongiungersi con suo padre, il luminare professor Archer, e scoprire perché il mondo attorno a lei sia totalmente popolato di macchine e gli esseri umani sembrino essere scomparsi.
Compito più facile a dirsi che a farsi: la ciclopica base sotterranea sembra essere zeppa di trappole mortali, automi aggressivi e pericolosi salti nel vuoto. Come se non bastasse, un’entità cibernetica nota come Hogo sembra determinata a fare la pelle alla povera Zoe, utilizzando un colossale Mech per polverizzarla. Ben presto la missione di Zoe risulterà chiara: recuperare quattro frammenti di codice sparpagliati in altrettanti sezioni della struttura per attivare un protocollo informatico in grado di mutare lo stato di cose attuale e dare una nuova speranza all’umanità. Ma le cose non sono così semplici…
Un surrogato di fantascienza cyberpunk, che da Matrix e Terminator passa per Metal Gear Solid e per l’immancabile Ghost in the Shell, è quanto di meglio possa descrivere la narrativa di Steel Seed: niente di nuovo sotto il sole, eppure quanto basta per motivarci a vestire i panni di Zoe e tentare di portare a casa la pelle in un mondo alieno che una volta è stato il nostro ma ora non lo sembra più nemmeno lontanamente. Nella distopia delle macchine in cui ci troveremo a girovagare, unico essere umano – o parzialmente tale – superstite di una misteriosa calamità, camminiamo su spaventosi baratri cibernetici e penetriamo incomprensibili architetture informatiche domandandoci che ne è stato della nostra specie.
Questa narrativa della minaccia e dell’oscuro presagio, cara a tanta letteratura e cinematografia fantascientifica, si ripropone nel canovaccio di Steel Seed senza particolari novità, ma con la sua consueta dose di fascino. Tanto più che, a sentir parlare oggi di intelligenza artificiale e macchine autocoscienti, tendiamo l’orecchio meno rilassati che in passato, sospettosi di star vivendo quelli che forse sono i prodromi della loro futura realizzazione.
In realtà la trama di Steel Seed è l’elemento più debole del gioco: non perché sia mal scritta, bensì perché semplicemente è l’aspetto meno approfondito dell’operazione, ricalcato su tanti antenati illustri che il gioco si guarda bene anche solo al provare a raggiungere. Un riciclone di tante idee senza troppe pretese, ma comunque dotato di un minimo di personalità nell’immaginazione delle regole del mondo, desumibili dalla lettura degli immancabili data log nascosti qua e là nelle mappe di gioco. L’importante in definitiva è che la storia del gioco sia sufficientemente interessante da invogliarci a proseguire: questo fa e questo basta. Di più sarebbe stato meglio? Certamente, ma per un gioco che fa del suo gameplay la sua essenza, rinunciamo volentieri alla letteratura per calarci ancor più volentieri nell’azione.
Corri, salta, spara
Come scritto in apertura, sono tantissimi i giochi basati sulla combinazione di questi tre elementi essenziali, e Steel Seed non è da meno. C’è un piacere quasi inspiegabile nel ripetere, per l’ennesima volta, azioni che ci sembrano ormai connaturate al videogioco action-adventure senza possibilità di esclusione. Zoe cammina, corre, si accovaccia, salta, scala, si arrampica e si lancia da una piattaforma all’altra, in una costante, incalzante corsa ad ostacoli. Grazie a Koby attiva interruttori posti a distanze altrimenti incolmabili, precipita lungo pendii scivolosi per poi saltare all’ultimo momento, corre su pareti da cui poi spicca balzi vertiginosi verso appigli sospesi nel vuoto. Esplorare il mondo di Steel Seed significa compiere un’acrobazia dopo l’altra, in una sequenza di azioni spettacolari in ambienti enormi che regalano scorci incredibilmente suggestivi, rivelando un design degli ambienti assai ispirato, un comparto artistico eccellente e un occasionale sapiente uso del matte painting, che riesce a far figura migliore rispetto ad alcuni scorci di Final Fantasy VII Remake.
Il gioco ci porta ad esplorare ciascuno dei 4 settori in cui è suddivisa la struttura sotterranea: ogni settore ha la propria identità visiva, al netto di una continuità di fondo che comunque non risulta mai stucchevole. Sebbene ogni area abbia qualche meccanica propria, c’è grande continuità d’azione per tutta la durata dell’avventura, che vi richiederà circa 10-12 ore per essere completata, a seconda del grado di difficoltà scelto (3 quelli disponibili) e della vostra esperienza nel genere. C’è molta esplorazione nel gioco: il level design si mantiene lineare senza essere banale, e si premura di nascondere qua e là collezionabili e risorse utili che vi spingeranno sempre a guardarvi attorno con attenzione.
Raramente ci si trova incerti sulla direzione da seguire, incertezza più che altro dovuta a qualche momentanea difficoltà di lettura dell’ambiente di gioco – che è spesso molto buio, anche alzando prepotentemente la luminosità dalle impostazioni di gioco. Alcune volte per proseguire dovremo necessariamente affidarci a Koby, di cui possiamo prendere il controllo in qualsiasi momento: passeremo quindi ad una visuale in prima persona, e saremo liberi di muoverci svolazzando per la mappa fino a una distanza generosa da Zoe. Ciò sarà utile per trovare oggetti nascosti, attivare interruttori altrimenti irraggiungibili e dunque proseguire nel gioco. Non ci troveremo mai ad affrontare degli enigmi ambientali ostici, ma ciò non significa che potremo spegnere il cervello durante l’esplorazione.
SIaT è riuscita a confezionare un’esperienza esplorativa semplice ma appagante, stimolando il giocatore ogni pochi passi a guardarsi attorno, valutare il salto, elaborare una strategia d’azione. Il fallimento non è mai punito eccessivamente – si perde un po’ di salute e si ha diritto a un nuovo tentativo – e in caso di game over i checkpoint sono piuttosto frequenti. In questo modo l’esperienza non è mai frustrante, pur non essendo una semplice passeggiata di salute.
Lo studio del terreno e del piano d’azione si applica anche in combattimento, che favorisce per buona parte dell’avventura un approccio stealth. Ci troveremo spesso in aree chiuse, più o meno ampie, popolate di nemici che dovremo riuscire a sgominare per poter procedere nell’avventura. Pensate a queste istanze come alle VR Mission di Metal Gear o alle arene di combattimento della serie Arkham di Rocksteady, e avrete un’idea immediata di cosa gli sviluppatori abbiano in serbo per voi: potremo osservare le ronde nemiche da posizioni nascoste, marchiarne numero e pattern volando in giro con Koby, e infine predisporre trappole e attacchi a sorpresa grazie ai nostri gadget, che potremo sbloccare e potenziare spendendo i punti accumulati sconfiggendo nemici.
Tra uccisioni silenziose, mine a impulsi, colpi spacca-cranio e immancabili barili esplosivi, ogni mappa sarà l’occasione per sperimentare modi divertenti di far mattanza di robot. I gadget a disposizione sono stati ben implementati, usarli è un piacere perché sono tutti utili: pochi ma buoni insomma. Vero, la varietà di tipologie di avversari non è elevata e alcuni schemi tendono a ripetersi, ma il gioco finisce appena prima che si inizi ad accusare un’eccessiva ripetitività.
Inoltre, nessuno vi obbliga ad agire sempre di soppiatto: sebbene all’inizio sia fortemente raccomandato in virtù delle poche risorse disponibili, in seguito potremo diventare abbastanza scafati da gettarci nella mischia con più nonchalance. Attenzione però: non saremo mai onnipotenti, e basteranno sempre pochi colpi a mandarci al tappeto, tanto più che i nemici sono parecchio aggressivi e tenderanno a darci la caccia senza pietà, sebbene la loro scarsa intelligenza renda sempre possibile varie forme di exploit.
Il combattimento in sé è ben calibrato: Zoe attacca principalmente melee. Koby può sparare, ma è estremamente lento e non fa danni elevati. Scordatevi quindi un approccio da sparatutto. Lo scontro ravvicinato è basato su schivata e risposta, e la concatenazione di brevi combo. Potremo sbloccare alcuni colpi speciali che amplieranno leggermente il roster di azioni disponibili, ma non aspettatevi manovre troppo complesse. La parola d’ordine, anche qui, è semplicità: pochi tasti da usare e molto tempismo. Gli amanti dell’azione propriamente detta resteranno delusi da alcune eccessive semplificazioni, nonché dalla sostanziale mancanza di bossfight – ce n’è solo una propriamente detta. Per il resto il gioco offre alcune sequenze scriptate di fuga rocambolesca di strutture in rovina – piuttosto pasticciate a dire il vero, con stuttering e collisioni stravaganti che vi causeranno qualche morte ingiusta – nonché rare sezioni a scorrimento laterale e qualche parentesi “aerea”, ma non aspettatevi eccessive variazioni di formula.