C’è qualcosa di profondamente sbagliato e allo stesso tempo dannatamente coerente nell’iniziare Death Stranding 2: On The Beach sapendo esattamente cosa aspettarsi. Lo capisci da come ti muovi nei primi passi, da come ritrovi quel senso di pesantezza familiare nello zaino, da come il vento taglia l’ambiente sonoro con la stessa malinconia di sempre. Sì, stai tornando lì. Ma stavolta qualcosa è diverso, e no, non è la mappa. È la consapevolezza. La consapevolezza che questo mondo, così spezzato e così bello, lo hai già ricucito una volta. E ora ti chiedono di farlo ancora.
Perché il primo Death Stranding, quando uscì nel 2019, fu un’opera rottura, una di quelle creazioni talmente fuori dal tempo da sembrare venute da un’altra epoca videoludica. Un’epoca dove Hideo Kojima poteva permettersi di trasformare il concetto stesso di gioco in un lungo cammino solitario e riflessivo. Ma oggi, nel 2025, quel cammino lo abbiamo già percorso. E percorrerlo di nuovo – anche con deviazioni, scorciatoie e qualche scorcio mai visto – non ha lo stesso sapore. Tutto questo trasforma il nuovo gioco di Hideo Kojima in qualcosa di strano: non c’è il peso di mettere in giro qualcosa di nuovo, e quindi c’è più sicurezza e coraggio, ma allo stesso tempo c’è voglia di fare quello, di proporre quello stile, quel gioco, quei passi. Di rimanere, in fondo, nella comfort zone.
Un mondo più grande, ma con meno coraggio
Death Stranding 2 è, inequivocabilmente, un “more of the same”. E non nel senso deteriore del termine. È più denso, più completo, più variegato. A livello di contenuti è un sequel che arricchisce, affina e ritocca. L’open world è stato ampliato con grande intelligenza: la mappa è completamente nuova e ben fatta, ci sono nuove condizioni ambientali da affrontare e una quantità ancora più ricca di strumenti e gadget da utilizzare. Le modalità di consegna si sono moltiplicate, trasformando la routine in qualcosa di molto più simile a un puzzle dinamico. Ma il tutto poggia su fondamenta che, ormai, conosciamo bene.
L’esperienza accumulata nel primo capitolo si sente ovunque. L’interfaccia è più chiara, il ritmo meglio distribuito, la curva di apprendimento più morbida, e le prime missioni accompagnano in modo veloce a riscoprire tutto quello che, in Death Stranding, avevamo scoperto con ore e ore di gioco. Kojima ha ascoltato, osservato, perfezionato. E proprio per questo stupisce (e non poco) che abbia scelto di non cambiare davvero. Di non osare un’altra rivoluzione. Di restare fermo in quello che è diventato il suo mondo più personale ma anche più autoreferenziale. Un mondo che inizia a sentire il peso della ripetizione. Si esplora, si costruisce, si collega, ma lo stupore non è più lo stesso (forse perché in cuor nostro ci aspettavamo ancora qualcosa di diverso, non che sia un male).

La trama di On The Beach continua ad affrontare i grandi temi del primo capitolo: connessione, morte, rinascita, identità. E lo fa con la stessa ambizione, la stessa voglia di toccare corde profonde, anche a costo di essere incomprensibile o eccessivo. La regia di Kojima è sempre lì, con i suoi dialoghi sospesi tra il profetico e l’assurdo, con i suoi simboli densi e volutamente ambigui. Ma è qui che il gioco cade nella sua trappola più pericolosa: quella del déjà-vu.
Non possiamo negare che molte delle dinamiche narrative ricalcano strutture che abbiamo già visto nel precedente capitolo, e molti dei momenti chiave sembrano un eco. Tuttavia, questo rafforza la coerenza interna del mondo, un universo che vive in cicli, che si piega e si richiude su sé stesso. Quando tutto è un riferimento, niente è nuovo, quando tutto è legato, nessun filo si spezza davvero. È un mondo che ha smesso di espandersi, e ha iniziato a guardarsi allo specchio. Quando il Game Designer si sposta su cose nuove e prova a mandare avanti il racconto, lo fa in modo eccellente, e alcuni passaggi riescono a stupire anche nel 2025, periodo storico dove un trailer spesso spoilera più di quanto si crede.

Personaggi magnetici, con un Marinelli da antologia
In mezzo a questa struttura, brillano i personaggi. Ancora una volta, Kojima dimostra di saper costruire esseri umani complessi, pieni di ferite, contraddizioni e segreti. I volti noti – da Sam Bridges a Fragile, fino a Higgs – tornano con nuove sfaccettature, nuove fragilità. Ma è nei nuovi volti che si trova il vero colpo di genio. In particolare, la performance di Luca Marinelli è tra le più sorprendenti e riuscite. L’attore italiano riesce a tenere botta (e a volte persino a rubare la scena) a mostri sacri come Norman Reedus e Troy Baker. E il fatto che si sia doppiato da solo nella versione italiana rende la sua interpretazione ancora più viva, più carnale, più vera. Marinelli porta in scena un personaggio stratificato, intenso, emotivamente instabile, e lo fa con una naturalezza rara nel medium videoludico.
Le sue scene sono memorabili, i suoi monologhi toccano vette altissime. E nonostante tutto, anche i personaggi secondari mantengono quella forza emotiva tipica di Kojima, dove ogni dialogo, anche il più banale, nasconde un peso, una memoria, una perdita.

Un gameplay che si apre ma non cambia
Le modifiche al gameplay vanno tutte nella direzione dell’espansione. Ci sono nuovi strumenti per attraversare gli ambienti, nuovi tipi di carico, nuove possibilità tattiche. I veicoli sono stati migliorati, le rotte possono essere pianificate con maggiore precisione, e la possibilità di collaborare indirettamente con altri giocatori è ancora più fluida. Il gioco incoraggia, quasi costringe, alla cooperazione silenziosa, e funziona.
Anche i nemici sono più vari: ai Muli e alle CA si aggiungono nuove minacce, alcune delle quali con caratteristiche ibride. Le sezioni stealth sono più complesse, e le battaglie più intense. C’è da dire che, per chi ha amato al millesimo la struttura del primo gioco, questo aumento delle fasi action, pensato per dare dinamismo, rischia di deviare un po’ l’esperienza. Insomma, il ritmo ne risulta variato: il gioco rallenta, poi accelera bruscamente, poi torna a rallentare; spesso funziona, ma può disorientare. Scongiurato in ogni caso il rischio di togliere spazio alla meditazione, alla fatica, e all’emozione della consegna solitaria.
L’introduzione di nuovi sistemi è intelligente, ma mai rivoluzionaria. Tutto si inserisce nel solco tracciato dal primo gioco. Si sente, forte, la mano di un Kojima che vuole perfezionare, non cambiare, che vuole consolidare, non rischiare. Un autore che conosce bene il suo mondo, e che non vuole certo perderlo.

Bellezza visiva e suono che emoziona
Sul fronte tecnico e artistico, Death Stranding 2 è semplicemente sontuoso. Il Decima Engine è stato spinto al limite, con ambienti dettagliatissimi, effetti atmosferici dinamici, modelli poligonali da next-gen vera. Ogni paesaggio racconta una storia, ogni rovina sembra una ferita, ogni collina un ricordo. Il level design lavora in silenzio, creando spazi che sembrano vuoti ma che in realtà sono pieni di senso.
Il comparto sonoro, poi, è un colpo al cuore. La colonna sonora alterna momenti orchestrali a canzoni struggenti, con il ritorno della voce di Ryan Karazija, il cantante dei Low Roar scomparso prematuramente. Ogni sua nota è una carezza malinconica, una presenza che accompagna il viaggio con un’intimità disarmante. La musica non è un sottofondo, è parte integrante del viaggio. E anche il resto del sound design – dal rumore delle pietre sotto gli scarponi al ronzio delle CA – è semplicemente perfetto.
Il doppiaggio italiano, come detto, è eccellente. Tutto è stato curato con attenzione: tono, interpretazione, sincronizzazione. L’inclusione di attori professionisti come Marinelli dimostra quanto Kojima voglia alzare l’asticella anche sul fronte linguistico. Il risultato è un prodotto che, finalmente, non fa rimpiangere l’audio originale.

Death Stranding 2: On The Beach è un gioco che osa tantissimo nel restare sé stesso. Un paradosso perfettamente in linea con il suo creatore. È un titolo che emoziona, che cattura, che avvolge, ma non sorprende. E questo, per un’opera di Hideo Kojima, è più insolito rispetto a qualunque altro caso.
Il gameplay è ricco, l’open world è vibrante, i personaggi sono indimenticabili. Ma l’idea alla base – quella scintilla iniziale che nel primo capitolo ci fece gridare al miracolo – qui è più fioca. È come se Death Stranding fosse diventato troppo grande per cambiare davvero, troppo importante per rischiare ancora di più.