Bambini e Graffiti: intervista al duo street art romano Qwerty Project

Un progetto particolare, un percorso inverso e la voglia di dire qualcosa: ecco la nostra intervista ai Qwerty Project

prattico
Di prattico Lettura da 14 minuti

A Roma Ovest c’è un forno che sia chiama Pane e Cioccolato. Mi hanno detto che ci trovi la vera pizza romana, quella scrocchiarella: fanno torte, pasta al forno, esperimenti culinari a base di melanzane fritte e pomodorini freschi, interviste. Perché loro non lo sanno ancora, ma il loro forno è perfetto per le interviste. Sono qui per incontrarmi con Qwerty, un duo di street artist romani attivi da parecchi anni sulla scena capitolina, tanto da essere apparsi un po’ ovunque negli ultimi anni. Arrivo davanti al forno, ho già deciso che prendere: cannelloni fatti in casa, quelli con la besciamella che scivola su tritato di carne e ti fanno sognare. Ma la saracinesca di Pane e Cioccolato è giù, il mio sorriso è giù: chiusi per ferie. Non lo sapranno mai che il loro forno è perfetto per le interviste.

Dall’altra parte della strada, con la coda dell’occhio, vedo un uomo scendere da una bicicletta e farmi un cenno. Non ve l’ho ancora detto, ma Qwerty è un collettivo composto da due artisti: oggi ne conosciamo uno. Non concedono interviste facilmente, soprattutto di persona, quindi mi considero fortunato. Anche senza cannelloni e besciamella.

“È chiuso”

“Vieni, andiamo a prenderci un caffé a un bar qui vicino e poi andiamo in pineta”

Camminiamo vicini sul viale, la bicicletta affianco, mentre mi parla di mostre, del passaggio dalle gallerie private alla Street Art, di progetti e di idee. Mi regala un pacchetto di sticker che ho già visti attaccati per le strade, alle fermate degli Atac, sui cestini: un bel regalo. Arriviamo in pineta e ci sediamo su un muretto, tra bambini che giocano a pallone, papà e mamme con i passeggini, murales. È un bel posto.

Ecco “Qwerty”: un omino stilizzato sempre pronto ad offrire un cuore di riserva

“Cominciamo dallo switch. Prima l’abbiamo accennato per strada ma non abbiamo approfondito: voi avete fatto un percorso artistico inverso, dalle gallerie alla strada. Quand’è scoccata la scintilla?”

“Noi due ci siamo conosciuti a Roma il 24 aprile di sei anni fa, al Rialto Sant’Ambrogio, un grandissimo centro sociale, ora chiuso, nel cuore del ghetto. Dopo quindici anni di attività nel campo istituzionale dell’arte  avevo già maturato l’esigenza di cambiare strada, avevo un’ansia basale a lavorare con i galleristi, con le mostre ma allo stesso tempo non volevo attaccare i pennelli al chiodo, sentivo l’esigenza di dipingere come connaturata all’esistenza. Mi dissi “c’è un problema. E il problema lo posso risolvere: devo solo cambiare strada.

E così scelsi la Street Art. Un percorso inverso, perché solitamente uno street artist inizia con la strada e poi finisce in galleria, noi abbiamo iniziato con le gallerie e siamo arrivati felicemente in strada. Quando lavori da solo ti devi confrontare solamente con te stesso ma se ti trovi un altro artista col quale vuoi condividere un progetto, come in questo caso, questo progetto l’altro deve sceglierlo di appoggiarlo o distruggerlo. Lei – perché stiamo parlando di una lei, ndr. – scelse di appoggiarlo. Questo tipo di confronto artistico lo abbiamo mantenuto sempre nel nostro rapporto, entrambi felici di fare il lavoro più bello del mondo: perché si, fare l’artista è il lavoro più difficile e più bello del mondo”

“E perché proprio Roma come campo d’azione?”

“Roma ha una cultura artistica, specie quella del periodo post bellico e degli anni sessanta, unica nel suo genere: Mario Schifano, Franco Angeli, Renato Mambor, Tano Festa, Giosetta Fioroni, la Scuola di Piazza del Popolo. Una cultura che forse ora si è un po’ persa ma che resta fortemente radicata alla città. A Roma ci sono artisti che non hanno niente da invidiare a quelli di New York, Pechino, Berlino, Londra. Solo, devono acquisire consapevolezza.

Abbiamo scelto di dedicare la maggior parte del nostro lavoro “unicamente” a questa città, in controtendenza con l’operato di molti artisti,  ispirandoci e invertendo la citazione latina che Plutarco attribuisce a Giulio Cesare “malo hic esse primus quam Romae secondus” (preferisco essere primo qui che secondo a Roma): per noi invece è meglio tentare di essere i primi a Roma che i secondi in qualsiasi altra città al mondo. Ci proviamo da cinque anni. Siamo abbastanza conosciuti, ci rispettano, però c’è ancora tanto lavoro da fare, vedremo tra 20 anni cosa avremmo lasciato, proprio perché non lo possiamo vedere lungo il percorso: lavoriamo al nostro progetto su base quinquennale, ogni cinque anni ci sediamo e vediamo cosa abbiamo fatto, cosa dobbiamo fare, dove dobbiamo andare. Step dopo step: non è facile né rapido.”

“Questa è una domanda un po’ al limite e molto dibattuta. Come si fa a distinguere uno Street Artist da un vandalo con in mano una bomboletta? Ci tenevo a sapere la tua perché voi due avete una visione molto poetica dell’espressione artistica.”

“Mh. Qui il discorso si basa più sulla soggettività e l’oggettività. Questa domanda noi non ce la poniamo proprio. Nel momento in cui in una galleria entrano 100 persone ti trovi davanti fruitori  con una motivazione: chi vuole arredare il cesso, chi la sala da pranzo, chi colleziona opere d’arte griffate e chi cerca giovani su cui investire e chi su cui speculare. In strada un poster, lo vedrà il vecchietto, la professoressa, lo studente quindicenne. Tra questi c’è chi considererà il tuo poster vandalismo e chi lo troverà così bello da strapparlo per portarselo a casa. Poi c’è anche quello che ci disegna un cazzo sopra…è successo. È  tutto basato sulla soggettiva del fruitore finale. E ti dirò di più: non è il gradimento finale che migliora la nostra percezione di cosa significhi essere artista è il senso di responsabilità che si ha soprattutto verso se stessi. Poi c’è la questione legale: nel momento in cui tu fai una affissione abusiva, che non pubblicizza niente ma è un’opera d’arte, non c’è una legge che ti può perseguire. C’è il vigile che ti fa la multa, ti fa il riconoscimento – quello già mi preoccupa di più.”

Una delle ultime e già più conosciute opere di Qwerty

“Cos’è un Qwerty si sa, il vostro omino stilizzato è diventato un logo ormai. Testa grande, arti esili, pancetta da birra e tacchi a spillo. Spesso però con lui c’è un piccolo cagnolino. Su di lui ho trovato poco. Cosa rappresenta?”

“Quando scegliemmo dove cominciare a posizionare le nostre opere, scegliemmo le scale, gli angoli del muro, zone poco utilizzate e quindi tele bianche. Basandoci su questi angoli di separazione tra due facce degli stessi muri realizziamo spesso da un lato Qwerty, magari che porge un cuore, un tulipano selvatico, dall’altro questo cane scheletrico, detto “OSSO”. Sono rispettivamente Eros e Thanatos: sono vicini, ma non si riescono a vedere. La vita non vede la morte e la morte non vede la vita. Però c’è da aggiungere che  per noi  la vita è eccezionale, la morte naturale. L’importante è non avere paura. Mia madre diceva: “quando vedi una giornata di sole vattela a prendere, le giornate di sole passano in fretta, le brutte giornate non passano mai.”

“Nelle vostre opere, addirittura mentre parli adesso, si avverte il bisogno, la fame, di poesia. C’è mai stato un ritorno di questa sensibilità, una persona che vi ha fatto sapere come la vostra arte l’ha cambiata, una prova di amore che vi ha reso felici?”

Si, assolutamente. Tantissimi giovani scrivono, pubblicano, leggono e hanno conoscenza di poesia: ci taggano nelle stories, nei post, fanno una foto ad una nostra opera e la pubblicano con una poesia di Alda Merini, di Nazim Hikmet, di Vincenzo Cardarelli o di Montale, creando un circolo virtuoso di pensieri e poetica. C’è un poster a Via dei Coronari: un bambino che legge un libro con su scritto “Think Poetic”. Una volta ci coontattò  un ragazzo dall’Inghilterra raccontandoci che non riusciva a scrivere da anni, poi vide quel poster durante un viaggio a Roma e ricominciò a farlo, si era finalmente sbloccato: ci ringraziò. È proprio questo il meccanismo che vogliamo attuare: che la gente si avvicini alla poesia, all’arte, e ne crei a sua volta.

“Qui torna anche il concetto di input differenti e le possibilità che la strada riesce a dare a differenza di una galleria…”

Assolutamente. In strada non hai più il controllo su quante persone, in questo preciso momento, sono in giro per l’Italia a passare casualmente davanti a un nostro lavoro o forse a fargli una fotografia: questo accade ogni minuto della giornata, senza sosta. La galleria è come una sala operatoria, l’artista interagisce con uno spazio asettico spesso ricreando la mimesi della realtà, la strada invece è reale: interagire con la metropoli, con il suo scheletro, l’architettura, e con la sua anima, la gente: riuscire a  trovare un equilibrio in tutto ciò che divide è molto più stimolante, considerato il fatto che la Street Art è… donazione.

Arte e contesto, sempre.

“A livello anche lessicale “stratificazione” è una scelta molto particolare come parola e spesso torna nelle vostre interviste: si strutturano messaggi, anche importanti, su un poster che magari dopo una settimana si è sciolto, è stato coperto, strappato via. Stratificazione e fugacità. Come vi rapportate a questo aspetto della Street Art?”

Basta un produttore di adesivi che scende di qualità con la colla e un tuo sticker dura un giorno. Questo a noi  non dispiace, perché un’opera nella metropoli non dev’essere eterna: la metropoli si evolve continuamente, fagocita tutto, compresa l’opera d’arte. Magari passo quattro, cinque ore a fare un poster e a seconda di dove lo attacco, se esposto in una piazza sotto al sole o in un vicoletto all’ombra dove non piove, può durare qualche giorno o qualche anno. Per me le cosa davvero importante è il processo, la fatica e il sacrificio mirati a raggiungere l’obiettivo. Lo stesso sforzo che Michelangelo ha raffigurato nella Creazione di Adamo, quella tensione tra Dio e l’uomo. Tu non toccherai mai Dio, ma la felicità è proprio lì, in quello sforzo, in quel continuo slancio e schianto. Nella tensione verso la felicità è la tensione  stessa che ti rende felice, la soddisfazione di vedere il tuo lavoro che migliora in una continua ricerca artistica.

“Sono state due ore bellissime”

“Sono passate veloci. Ti accompagno al cancello”

Ci salutiamo all’uscita della pineta. Ho una cena con un amica e sono in ritardo, ma più che la fretta sento la voglia di rimanere. Qwerty, la metà di Qwerty qui accanto a me, sorride, sta salendo in bicicletta. Sembra il custode della pineta, un sacerdote etrusco nel suo bosco sacro. Un sacerdote etrusco con le dita sporche di vernice. Ha un bel sorriso sotto gli occhiali da sole. Abbiamo parlato per quasi tre ore, migliaia di parole registrate che ho dovuto tagliare, rielaborare e incollare qui in questo articolo. Ed è stato bello, così bello che ho già perdonato quelli di Pane e Cioccolato di essere andati in ferie. Spero che qualcosa di quella bellezza sia arrivato anche a voi, mentre mi sbrigo ad inventare una scusa per il ritardo alla cena. Che poi cosa mi sbrigo a fare, manco ci sono i cannelloni.

Condividi l'articolo