La storia e l’essere umano, epoche che si frappongono all’attuale concezione intorno al sesso e al ruolo nel sociale, e al tempo stesso ci dialogano attraverso quei lavori pronti a riportarne in auge le dinamiche anche più negative, riflettendo sul presente, sul passato e forse anche sul futuro. Questo processo va tenuto bene a mente mentre guardiamo Le bal des folles, il film di cui oggi vi proponiamo la recensione: questa scelta creativa dell’autrice ha cercato d’impiantare la riflessione alla base della pellicola, attingendo da un passato che curiosamente – e inevitabilmente – ci porta a riflettere su dinamiche odierne, ma anche su quello che siamo stati, su quello che abbiamo fatto, evitando di ripetere determinati errori. Il film, (tratto dal romanzo di Victoria Mas) in uscita il 17 settembre su Amazon Prime Video vede alla sua regia Mélanie Laurent, conosciuta per i suoi ruoli d’attrice anche con registi di spicco (come Tarantino), e imbastisce le basi di una storia che parla di donne e sta al loro fianco, andando contro il nostro stesso passato ed anche alcune problematiche appartenenti al presente.
Un dono?
È importante introdurre innanzitutto il contesto in cui il tutto si ambienta. Ci troviamo nel 19esimo secolo, in una Francia ottocentesca amara, stantia, decadente e polverosa in ogni sua singola inquadratura. L’austerità di questo periodo storico la fa padrona in un estetica filmica che parla da sé, senza neanche il bisogno di dialoghi, senza neanche il bisogno di approfondire troppo quello che sta accadendo. Le immagini e gli sguardi dialogano senza filtro, in una freddezza pseudo intellettuale che tende al bigottismo, il tutto in una famiglia della medio-alta borghesia composta da individui di ghiaccio e da tutto quello in cui credono.
Al centro di tutto troviamo la protagonista della pellicola Eugénie, una giovane e delicata ragazza inserita in un contesto, non soltanto quello familiare, opprimente ed oggettificante. Il suo essere donna in un mondo che vede le donne in un certo modo lo si carpisce fin dai dialoghi introduttivi del film, anche se questa dinamica riflessiva lascerà ben presto spazio ad una trama che ne conserverà la luce, lungo una strada ben differente. Eugénie, infatti, non soltanto percepisce tutte le ingiustizie legate alla sua identità, ma decide di affrontarle senza troppo piegarsi, in un atteggiamento altalenante, almeno nelle fasi iniziali della storia.
Questa giovane ragazza però ha un dono particolare, riesce a vedere e a parlare con gli spiriti dei defunti. Sarà questo il reale incipit, visto che in una società morbosamente legata alla razionalità come quella ottocentesca un dono del genere non troverà mai un vero e proprio posto, né tantomeno una comprensione. Partendo da tutto ciò Eugénie verrà isolata da tutti, anche dalle persone che avevano professato amore nei suoi confronti, per essere rinchiusa in un manicomio in cui assisterà a uno dei lati più oscuri della sua stessa realtà sociale.
Il manicomio come mezzo filmico
Le bal des folles attua principalmente un’opera di critica, una critica che si serve di determinati contesti o mezzi di sceneggiatura per condurre lo spettatore ad una riflessione o ragionamento finale. È quindi interessante parlare del manicomio in sé non dal punto di vista narrativo, ma da quello riflessivo. La regista, Mélanie Laurent, si serve del posto in cui la sua protagonista viene mandata (comparendo anche lei come personaggio centrale) per costruire una rappresentazione, piuttosto dettagliata, diretta a e cruda, del modo in cui queste donne venivano trattate in ambienti del genere. Ne fuori esce la vera anima del film, uno spaccato diretto e tagliente che parla da sé, che parla per immagini, appunto, in una rappresentazione diretta di tutte le atrocità e l’ignoranza di fondo di un’epoca che professava qualcosa verso cui era allo scuro. Da tutto ciò quindi ne fuoriesce una critica sia all’essere umano in sé, sia allo sperimentalismo sanitario crudele e destabilizzante di chi di umano aveva ben poco.
In tutto questo il ruolo di Eugénie oscilla continuamente da quello della testimone degli orrori suddetti, a quello della protagonista che cerca di definire se stessa, in qualche modo. Nel corso di tutto il film viene continuamente messo in dubbio il fatto che lei sia realmente matta, con un accento fondamentale a questo suo dono, qui condanna, e alla percezione distorta di questo suo periodo storico di appartenenza. In parallelo a tutto ciò abbiamo un accenno alla vita delle altre pazienti (ricordando moltissimo film come Ragazze interrotte, ad esempio), pronto ad arricchire ancora di più il comparto generale.
Dal punto di vista formale il film si muove lungo una serie di inquadrature prevalentemente statiche ma a tratti delicate, attente allo specifico umano delle sue protagoniste ed a quello fisico, con una serie di primi piani pronti a coglierne le varie sfumature nel corso degli eventi. La messa in scena e le scenografie risultano credibili dal principio, insieme anche alla recitazione generale, valorizzata da qualche guizzo fotografico, volto ad incentivare l’anima drammatica di base.