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Darkest Dungeon: riscopriamo insieme il videogioco

Il ritorno è l’obiettivo di ogni viaggio; passaggio finale di una missione, una fine che permette un nuovo inizio. Quante volte vi siete trovati da bambini a fantasticare su missioni improbabili alla ricerca di un tesoro? Spielberg ci ha addirittura scritto un film di successo mondiale, I Goonies nello specifico. Ebbene, Darkest Dungeon è stato questo nel mondo del gaming: un perfetto Rogue-Like, capace di aggiungere novità interessanti al viaggio di qualche baldanzoso eroe, sospeso tra vita e morte, follia e sanità mentale. Il Dungeon, un lungo sconosciuto, immaginato soltanto e di solito meno spaventoso una volta che ci sei dentro rispetto a quando eri fuori.

Darkest Dungeon

Con il suo design vittoriano, Darkest Dungeon porta i giocatori in un’avventura pretesto, dove degli eroi vengono chiamati a scendere nelle profondità di dungeon procedurali per sconfiggere un grande male. Le cose non sono affatto semplici, però: il giocatore deve gestire diverse risorse, oltre quelle che ci si aspetta da un rpg, quindi armi, armature, incantesimi e benedizioni, senza poi dimenticare le immancabili razioni di cibo, il riposo per i nostri eroi e quella che viene definita “sanità mentale”, perché più ci si addentra nelle profondità del Dungeon, più orrori i nostri eroi vivranno, con la conseguenza di poterli vedere letteralmente impazzire innanzi ai nostri occhi.

Il lungo incubo di Darkest Dungeon

Parlavamo di pazzia, la quale è in alcuni casi addirittura curabile, riposando presso una locanda o prendendo medicine (più o meno efficaci). Non solo mostruosità minano la salute mentale dei nostri eroi: ferite che influiscono sul morale, oscurità dilagante, trappole e le parole dei compagni stessi… dopotutto, provate a mettervi nei panni di chi sta affrontando il viaggio più pericoloso della sua vita, il tutto accanto a qualcuno che lo insulta, lo umilia o lo schernisce; poco ma sicuro, non restereste indifferenti ad un tale trattamento. La follia, una volta comprovata, si traduce in atti malsani, come l’autolesionismo, il desiderio di suicidio (quindi la rinuncia alle cure, per esempio), la paranoia che è forse una delle più pericolose condizioni, in quanto tutto il party si ritroverà coinvolto suo malgrado in sproloqui senza senso che il “folle” di turno andrà blaterando circa complotti e maledizioni inesistenti o chissà che altro gli passi per la “brocca”.

“Avete visto il prete? Non mi ha curato perché preferisce che io muoia, vuole più bene al Ladro che a me!”

Guerriero in stato di Follia Acuta

Pensate che finisca qui? Ebbene, sotto stress potreste anche subire degli infarti che, al pari di quelli che avvengono nel mondo reale, possono essere più o meno forti e conseguentemente potenzialmente capaci di tradursi nella morte prematura di un membro del gioco. In Darkest Dungeon i pericoli sono ovunque ma al villaggio possiamo trovare pace e ristoro: pregando, ad esempio, un sacerdote potrebbe ritrovare la sua lucidità, mentre un guerriero potrebbe stare meglio se si limitasse a pulire le sue armi e sistemare il suo equipaggiamento. Nel gioco c’è una forte componente di posizionamento ovvero, camminando in fila indiana, i nostri quattro membri del party si ritroveranno uno davanti all’altro e scopriranno di avere più affinità con una certa posizione rispetto ad un altra, un particolare che si rivelerà essenziale nel corso degli scontri.

Darkest DungeonDarkest Dungeon si è distinto in maniera ottimale nel panorama videoludico moderno grazie alla freschezza del gameplay, semplice ma al contempo realizzato dannatamente bene, a tratti frustrante in quanto la morte di un membro del party a cui si è affezionati potrebbe essere un momento duro per la sanità mentale del giocatore (e la sanità strutturale di molti mouse lanciati contro diverse pareti n.d.r) ma una volta padroneggiato il gioco, si potrà stare più attenti del solito, evitando le situazioni di forte stress e gestendole al meglio.

Tiziano Sbrozzi
Lusso, stile e visione: gli elementi che servono per creare una versione esterna di se. Tiziano crede fortemente che l'abito faccia il monaco, che la persona si definisca non solo dalle azioni ma dalle scelte che compie. Saper scegliere è un'arte fine che va coltivata.

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