Sound of Metal, di cui oggi vi proponiamo la recensione, è il film del 2019 diretto da Darius Marder disponibile sulla piattaforma streaming Amazon Prime Video dal 4 dicembre 2020, ma pronto in lista di attesa per arrivare anche al cinema. Il film ha riscosso un enorme successo sia di pubblico che di critica, tanto da ricevere ben sei candidature ai Premi Oscar: miglior film, miglior attore protagonista a Riz Ahmed, miglior attore non protagonista a Paul Raci, miglior sceneggiatura originale a Darius Marder, miglior montaggio a Mikkel E. G. Nielsen e miglior sonoro a Nicolas Becker, Jaime Baksht, Michelle Couttolenc, Carlos Cortés e Philip Bladh. Il film, 120 minuti di durata, si è portato a casa proprio queste ultime due statuette. Inizialmente concepito da Derek Cianfrange, ispirato dalla sua esperienza da batterista con l’acufene, il soggetto è stato poi donato a Darius Marder, che l’ha portato in seguito su schermo tra mille difficoltà dovute alla pandemia Covid-19, grazie al sostegno di Amazon.
Sound of Metal racconta la storia di un batterista, Ruben (Riz Ahmed), che suona in un gruppo metal insieme alla fidanzata, Lou (Olivia Cooke). I due conducono una vita da artisti nomadi, vivono in un camper e viaggiano per gli Stati Uniti passando da un concerto all’altro verso il lancio di un loro disco, ma qualcosa interrompe tutto. Ruben sta repentinamente perdendo l’udito e tutto inizia a crollargli addosso. Inizialmente lo nasconde a Lou e continua a suonare con evidenti difficoltà, fin quando è costretto a rivelare la verità ed interrompere il tour. Ruben capisce di non poter fare niente, l’operazione che gli consentirebbe di recuperare (forse) l’udito è troppo costosa, così, decide di abbandonare tutto e recarsi presso un centro guidato da Joe (Paul Raci) composto da una grande comunità di persone non udenti che vivono e lavorano insieme. Inizia quindi un percorso di accettazione di una nuova vita che Ruben deve condurre da solo, non senza difficoltà o ripensamenti.
Sound of metal è una storia di rinascita
Una storia forte, cruda e reale, che punta tutto sulla stimolazione delle giuste corde emotive nello spettatore. Si guarda il film, ma si sente il mondo come lo sente (e poi non sente) Ruben. Da qui, l’Oscar al miglior sonoro. La storia che si vive non è una storia normale, è una vera e propria tragedia. Finisce una vita precedente, ne inizia una nuova. Niente più musica, niente più lavoro, niente più piena percezione del mondo esterno. Silenzio assoluto e impossibilità di comunicare come prima che diventano un silenzio assordante nella testa di Ruben, che invece fa tantissimo rumore, in piena crisi d’esistenza. Un percorso che inizia con la rabbia e la disperazione, per poi diventare rassegnazione, accettazione e forse rinascita. Una storia amara ma dolce allo stesso tempo, fatta di tanti sentimenti positivi specialmente in tutta la parte centrale della narrazione, quando Ruben da ultimo arrivato nella comunità di Joe diventa poi un membro importante per molte persone, come gli dice lo stesso Joe. Quest’ultimo è un personaggio chiave, una guida, che fin da subito mette le cose in chiaro. In questo centro non risolviamo questo problema (indica le orecchie), ma questo (indica la testa). Insomma, nella comunità, chiunque ne fa parte, deve accettare questa nuova condizione, conviverci e magari riuscire a convertirla in un punto di forza per il futuro. Questa è la storia di Ruben, che ora deve reimparare a comunicare, a vivere nella continua ricerca della pace interiore.
La potenza del film è la calma con cui tutto ciò viene spiegato, che però non porta mai alla noia. Lo spettatore viene a poco a poco abituato al nuovo mondo di Ruben che cambia. Una regia precisa, chiara, che chiede perfettamente le giuste performance a tutti gli attori; una sceneggiatura che dà tempo e modo ad ogni personaggio di esprimere sé stesso, con tanti piccoli dettagli che aggiungono sfumature. C’è anche il giusto tempo per non spiegare qualcosa, come nel finale, forse un po’ telefonato, ma che lascia uno spazio di interpretazione per capire ciò che accadrà da lì alle prossime ore: l’unico finale giusto per una storia come questa. La recitazione dell’attore protagonista Riz Ahmed (Rogue One, The OA), vale del tutto la candidatura all’Oscar ricevuta (e a detta di molti avrebbe potuto anche tranquillamente vincere al posto di Anthony Opkins). Ancora più forte, forse, la prova di Paul Raci, il candidato come miglior attore non protagonista, che interpreta un Joe perfetto.
L’attore, figlio di genitori sordi, non è un professionista del grande schermo, ma restituisce un personaggio di grande spessore, praticamente perfetto. La fotografia è molto spesso incentrata sul personaggio di Ruben e coglie ogni sua espressione, risaltando spesso gli occhi molto espressivi di Riz Ahmed, ma anche i colori della natura, forse a voler ricordare che mentre si perde il suono, magari si riesce ad acquisire qualcos’altro. Non è ben chiaro perché Sound of Metal abbia vinto l’Oscar al miglior montaggio, preciso, giusto, ma nulla di esaltante e nessuna scelta particolare per primeggiare contro The Father o Mank (qui la nostra recensione), per esempio. La colonna sonora è poco presente, ma si fa importantissima anche per come viene fatta ascoltare, proprio per come la sente in maniera particolare Ruben, in una scena memorabile in cui Lou canta una bellissima canzone duettando col padre.
come avrete capito già dalla recensione, Sound of Metal è un film convincente, una storia semplicissima ma carica di tantissime cose. Sarà un film di cui si parlerà per molto, magari da esempio per moltissime persone e anche, in qualche modo, utile dal punto di vista didattico. Molte persone si sentiranno sensibilizzate dopo la visione o capiranno sfaccettature di un mondo che non conoscono, che considerano così esterno e lontano, quasi non normale, ma che non è solo è normale, ma anche carico di tanta bellezza.