X-Men: Dark Phoenix – Recensione del nuovo film di Simon Kinberg

Emanuele Massetti
Di Emanuele Massetti Recensioni Lettura da 8 minuti
6.5
X-Men: Dark Phoenix

Le avventure di questa scolaresca sui generis – sviluppata negli anni 60 dal visionario e avanguardista Stan Lee insieme a un altro genio di nome Jack Kirby – ci accompagna (in chiave cinematografica) ormai da diversi anni e tanta acqua è passata sotto i ponti. Dall’esordio brillante e pionieristico per un cinecomic “moderno” – ormai diciannove anni fa – con i capitoli di Bryan Singer (invecchiati sotto molti aspetti, ma rispettosi dei personaggi cartacei, attualizzandoli e sottolineando principalmente il tasto della minoranza razziale); passando per Brett Ratner (il capitolo più discusso); Matthew Vaughn (forse l’unico dopo l’era Singer a lasciare una traccia più significativa sul tema); il ritorno del papà cinematografico (“Giorni di un futuro Passato” e “Apocalypse“); e infine, arriviamo a quest’ultimo e impercettibile capitolo per mano di Simon Kinberg.

Forse i mutanti hanno detto proprio tutto quello che dovevano dire al cinema? A proiezione conclusa la domanda si palesa con una certa convinzione. Il tema centrale della storia ormai è universalmente noto e il trattamento riservato a questo arco narrativo (La Fenice Nera) negli anni precedenti, ha lasciato principalmente brutti ricordi e un malcontento generale. Kinberg – fedele assistente di Singer, ormai fin dai primi capitoli – ha l’onore di ripercorrere questa strada cercando di omaggiare una delle saghe più celebri dei mutanti e, consequenzialmente, di congedare alcuni volti noti ormai orientati verso nuovi orizzonti professionali. Già pregustando l’acquisizione di Marvel Studios, con il tanto agognato ritorno a casa di questi personaggi (che non vedranno riscontro se non all’incirca tra tre anni) passiamo alle riflessioni su quest’ultimo tassello targato Fox. Il nuovo film dei mutanti Marvel – come già accennato – ha un approccio canonico che si adagia sul solito schema ormai rodato da diversi anni, dove le dinamiche fra i personaggi sono sempre quelle a cui siamo abituati: individui che diventano instabili e creano scompiglio fra il gruppo, qualcuno che tenta di sovvertire la leadership di altri, l’amore congiunto tra più componenti, cambi repentini tra fazioni opposte e il ridondante concetto di famiglia. Il mondo in cui interagiscono è un 1992 meno smaccato e ruffiano del solito (soprattutto meno musichette dell’epoca) che fa da sfondo agli eventi senza fagocitare irrimediabilmente i personaggi principali e rubando la scena come tendenzialmente si farebbe in altri film analoghi. Kinberg gira in modo essenzialmente pulito e senza fronzoli, ma ciononostante impersonale; senza la grazia ne la cifra stilistica di Singer – più autoriale e appassionato della materia mutante – dove da sempre traspariva questo amore nel delineare i contrasti e le incertezze di certi personaggi. Kinberg li fa muovere alla stessa maniera delle precedenti pellicole, ma fondamentalmente senza nessuna evoluzione particolare. Si limita ad aggiungere dei bruschi cambiamenti comportamentali, tralasciando delle transizioni logiche e contemplative che sottintendono una scrittura pigra e poco dettagliata a servizio di una storia convenzionale che procede per tappe – fin troppo – cadenzate. Chi non ha mai amato l’approccio realistico, urbano, e poco fantasy (anche se ultimamente si sono svelati anche sotto certi aspetti) dei mutanti targati Fox, continuerà a non apprezzarli, poiché X-Men: Dark Phoenix  – nonostante le blande tutine che scimmiottano il fumetto e indossate fugacemente – ha tutti i limiti dei film precedenti, compreso il rischio di sbadigliare in alcuni punti proprio per questa sua struttura così sistematica: la prevedibilità dei contrasti e le schermaglie fra i vari protagonisti sono abbastanza retoriche, con risvolti intuibili e tendenzialmente preannunciati. Tralasciando l’ottimo prologo, con l’affascinante missione di salvataggio nello spazio; le sorprese, anche dal punto di vista visivo, sono ben poche. La minaccia implacabile, oltre a una Jean Grey allo sbando e fuori controllo, è rappresentata da una civiltà aliena – spinta da motivazioni stereotipate e dal background poco esplicato – capitanata da un’algida e imperturbabile Jessica Chastain. Inoltre, si va ad aggiungere un’altra tendenza deleteria che è ormai una tradizione per i trattamenti riservati Fox: l’uso improprio di spalmare i mutanti ancora non usati nei film precedenti, trattandoli sempre senza spessore narrativo e mettendoli come delle comparse sullo sfondo tanto per colorare il quadro generale. In particolare fanno capolino: Omega Red, e Dazzler. L’effettistica è usata grossomodo con una certa cura, e tende a evidenziare ogni aspetto dei poteri in ogni mutante: mai come in questo film potremmo vedere tutti i protagonisti lavorare in sinergia come una vera e propria squadra. Più avanti la CGI mostrerà il fianco nella manipolazione non proprio realistica di alcuni oggetti fisici in scena, ma è proprio quando si realizzano effetti prostatici o con oggetti veri che l’azione e l’ambiente circostante assumono un tono accattivante. Il prologo con la famiglia Grey che viene coinvolta nell’incidente automobilistico che farà da snodo principale per spiegare l’instabilità intrinseca dei potere di Jean, è ricreato (finalmente) con stunt e mezzi veri. Anche qualche altra situazione analoga durante il film comporterà la presenza di mezzi e oggetti effettivi. Finalmente si torna a ricreare incidenti automobilistici sfruttando macchine tangibili anche nel cinema mainstream, che ormai da tempo ci ha abituati a un’orgia di effetti impalpabili pur di risparmiare sul bilancio.

In conclusione: X-Men: Dark Phoenix è un compitino molto basico ed essenziale della celebre storia di Clermont. Realizzato discretamente e senza macroscopici difetti. Lineare (forse troppo) e poco articolato, dando l’idea di muoversi con poca sicurezza come un elefante in una cristalleria. Dark Phoenix si concentra troppo a schivare i malevoli retaggi del tanto vituperato capitolo di Brett Ratner e i paragoni – quelli inevitabili – con la sensibilità Singeriana degli anni migliori, senza avere lo sprono di lasciare una sua traccia indelebile attraverso un tocco ben preciso; cosa che a Singer riusciva con una certa disinvoltura. Forse è arrivato il momento di cambiare registro (la vecchia squadra – probabilmente – ha dato il suo meglio nel secondo capitolo:“X-Men 2”; mentre quella nuova – più giovane e alle prime armi – ha brillato nel capitolo diretto da Matthew Vaughn) scegliendo una linea inedita e meno bramosa delle solite tematiche goffe e ripetitive delle grandi saghe degli albi cartacei. L’introduzione degli X-Men nel mondo variegato e ben congegnato della Marvel Studios potrebbe regalare nuove sfaccettature e inedite interazioni, che non siano (speriamo) sempre quelle che ritraggano i loro drammi personali contrapposti all’opinione del genere umano e all’accettazione pubblica.

X-Men: Dark Phoenix
6.5
Voto 6.5
Condividi l'articolo