I biopic hanno stancato. Spesso privi di qualsiasi mordente o semplice introspezione, ancora più spesso degli Oscar Porn senz’anima, creati al bacio per attori di alto calibro che già da qualche anno si meritavano l’ambita statuetta (come per L’ora più buia, nda). Senza contare, imperdonabilmente, che quasi nulla ci lasciano, seppur con dovizia di particolari artistici e tecnici, del personaggio protagonista. Considerando, infine, i sontuosi budget utilizzati per ricostruire con dovizia di particolari e fedeltà storiografica l’evento narrato (tra scenografie, costumi, truccho ecc..), quando centinaia di giovani registi che tentano la strada dell’autorialità e della storia orginale avrebbero bisogno di un minimo di fiducia e di un modesto budget, è difficile non odiare i film biografici.
Tonya, invece, è l’esempio di come i nuovi biopic dovrebbero essere fatti. Interpretato e prodotto da Margot Robbie (in rapidissima ascesa dal ruolo che l’ha consacrata in The Wolf of Wall Street), il film racconta la storia pazzesca della pattinatrice Tonya Harding, protagonista negli anni ’90 di uno dei più famosi scandali sportivi dello sport americano e mondiale: l’aggressione della collega e rivale Nancy Kerrygan, durante una sessione d’allenamento da un ignoto imbecille. Accusata, assieme al marito Jeff Gillooly (Sebastian Stan), di aver orchestrato l’attacco per impedirle di partecipare ai giochi olimpionici di Lillehammer, verrà bandita a vita dal pattinaggio competitivo.
La donna che tutta l’America ha amato odiare, Tonya Harding è tutt’ora riconosciuta come esempio infamante di anti-sportività, già demistificata precedentemente dalle istituzioni sportive come una “reginetta del trash”, per via del suo carattere irruento e volgare, ma anche per le sue difficoltà economiche e l’ambiente basso-borghese da cui proveniva. Pochi, però, hanno provato a conoscere veramente Tonya, una atleta sì ambiziosa e a tratti aggressiva, ma anche una ragazza cresciuta con una madre, LaVona, violenta e opprimente, dal cuore di pietra (una Allison Janney inarrivabile, Oscar, BAFTA e Golden Globe come Miglior Attrice Non Protagonista) e vittima di una relazione malata col marito violento e ignorante, Jeff. A poco e niente le era valso essere la prima pattinatrice americana ad aver eseguito un triplo axel, il salto più difficile del pattinaggio, nel 1991 ai campionati Usa di Minneapolis: lei sarebbe stata sempre quella fuori posto, quella che si faceva i costumi da sola e arrivava alle piste su un furgone malandato.
Il film di Craig Gillepsie, scritto da Steven Rogers (il perché non lo abbiano candidato nella categoria sceneggiatura rimane un mistero..), è un racconto che sfugge con grazia alle normali classificazioni di genere, ma piroetta allegramente tra docu-film, dramma e satira nera, tra immagini di repertorio, ricostruzioni video, false interviste e rotture di quarta parete. Come l’axel eseguito dalla pattinatrice protagonista, il film salta da un registro all’altro con grande dimestichezza, aiutato da un montaggio frenetico, quasi febbrile, che aiuta e fortifica il gusto di felice straniamento delle due ore di film e la sfuggente identità della atleta protagonista, divisa tra criminale e vittima, carnefice e oppressa.