Narrativa e videogiochi tra mercato e 4K

Federico "Alexeij" Zunino
Di Federico "Alexeij" Zunino GL Originals Lettura da 6 minuti

Sono passati ormai quasi quarant’anni dalla creazione del primo Zork nelle viscere dell’MIT, nel lontano 1979. Non certo la prima avventura testuale, ma forse la più iconica dell’epoca, Zork portò alla luce una nuova esigenza nel nascente “medium videoludico” accanto al puro e sano divertimento: quella di una storia e di una narrativa che vadano oltre le costrizioni tecniche.

Saltiamo in avanti al giorno d’oggi: l’industria videoludica è ormai un colosso che si autoalimenta, un hydra dalle mille teste in grado di competere per pubblico e mezzi col paterno cinematografo. Eppure non si può fare a meno di pensare che fra 4K, HDR, frame rate ed affini, un gergo che echeggia alle fiere ed eventi con sempre maggior preponderanza da anni, forse, forse, il comparto narrativo stia scemando nuovamente in un ruolo di secondo piano, succube e sottomesso alla “nuova frontiera” della tecnologia e ad un mercato che rischia di dare più importanza alla risoluzione su schermo e alla presentazione che alla sostanza e alla qualità dentro alla sublime involucro grafico.

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Sia chiaro che non si intende qui attaccare o sminuire quella che è la colonna portante su cui si erge da sempre quest’industria. Basta guardare le date su Wikipedia per notare con assoluta certezza che, per quanto riguarda i videogiochi, è sempre stata l’evoluzione tecnologica a fare la fortuna del medium. Qui l’esigenza di una valida componente narrativa, a differenza del cinema, nasce tardivamente più come elemento di contorno che come feature intrinseca e fondamentale; e tuttavia, guardandosi indietro, non si può negare che per molti giocatori i momenti più eclatanti o deprimenti, quelli che rimangono impressi più di una kill o di un sorpasso, si trovino all’interno di un impianto narrativo coinvolgente o derivino da soluzioni di trama sconcertanti.

Ciò non vuol dire che tecnologia e narrativa siano caratteri reciprocamente esclusivi, o che lo sviluppo di uno vada a precludere necessariamente alla qualità dell’altro. Pensate a The Last of Us, acclamato da molti come uno dei migliori titoli di sempre: vi sareste immersi e rispecchiati altrettanto facilmente nel dramma di Joel ed Ellie senza un comparto tecnico in grado di far esprimere il carico emotivo dei personaggi e delle loro scelte ben oltre le “mere” linee di dialogo? Forse si, forse no. Si potrebbero portare altri esempi, de gustibus o meno, ma la triste verità è che giochi come The Last of Us, The Witcher 3 o Journey sono l’eccelsa eccezione di quanto menzionato sopra. Qualunque siano le ragioni (variazioni di budget, tempi di sviluppo, politiche aziendali) è innegabile come tecnologia e narrativa siano spesso, troppo spesso, i due piatti di una bilancia che non riesce a trovare la giusta misura per l’equilibrio.

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D’altra parte, possiamo biasimare troppo i produttori e creatori di videogiochi? Come con il cinema, anche l’industria videoludica segue in linea generale le richieste del mercato. Basti osservare come negli ultimi anni si siano moltiplicati i giochi open-world, anche quando questa scelta risulti nuocere pesantemente (qualcuno ha detto Mafia III?); come anche titoli RPG che offrono l’illusione di scelta, oppure ancora, più recentemente, lavori a sfondo sci-fi/space opera. Certo, in quanto animale dalle innumerevoli teste, il medium si diversifica e si evolve, spesso tramite processi di “trial and error”, ma come qualunque industria le proiezioni di mercato e la prospettiva di guadagno sono potenti strumenti nei processi decisionali. Non si tratta qui di una critica, quanto di una constatazione di una realtà con cui è necessario confrontarsi per essere giocatori consapevoli del proprio ruolo, potere ed influenza all’interno del panorama videoludico.

Può sembrare una dichiarazione dell’ovvio – e lo èma sugli scaffali e gli store online arriva ciò per cui abbiamo pagato e per cui in molti continueremo a pagare. E se da una parte è incoraggiante e degno di plauso lo sforzo di un Battlefield 1 e di un Titanfall 2 di approfondire o addirittura aggiungere una componente single player marcatamente story-driven, una scelta che il pubblico sembra aver ben gradito, dall’altra fanno tremare di terrore i nuovi trailer di Mass Effect: Andromeda e la consapevolezza che Mac Walters, il lead writer di Mass Effect 2 e 3, sia il Creative Director a capo del nuovo progetto di casa Bioware. Ci sarebbe da parlare per ore ed ore delle “politiche schizofreniche di Bioware”, delle scelte aziendali e dell’evoluzione di una delle software house che ha consacrato il genere RPG in tutto il mondo con capolavori di scrittura come Baldur’s Gate, Neverwinter Nights e Star Wars: Knights of the Old Republic, ma non è questo il tempo e il luogo.

Chiediamoci invece, come giocatori e consumatori, quali prodotti vogliamo che entrino nelle nostre case. Il primo Watch Dogs, o Fallout: New Vegas? Dragon Age Inquisition, o The Witcher 3? Beyond: Two Souls, o Heavy Rain? Giochi dalla scrittura banale e approssimativa, ricchi di contraddizioni interne e personaggi cartonati, oppure opere degne di questo nome, in grado di attirarci in storie capaci di commuoverci, esaltarci ed emozionarci accanto a personaggi vivi e memorabili? A voi la scelta.

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Seguace disilluso di mamma Bioware, in un costante odi-et-amo con Bethesda e fanboy di Chris Avellone, nasce, cresce e va a sbattere a braccetto con Pokemon e la FX. Gli anni dei RTS sono lunghi e pieni di gioie, poi recupera American Conquest Serie Oro e rischia l'esaurimento nervoso contro l'IA del gioco. Da quel momento comincia la passione (leggi: ossessione) per gli RPG su ogni piattaforma fino a tornare recentemente su PC, sebbene abbia lacune catastrofiche su alcuni classici che non si può non aver giocato - vero, Final Fantasy? Scrive, legge fumetti da finto intellettuale dopo i traumi dovuti ai manga - ma la Sindrome di Stoccolma è una brutta cosa - e scrive ancora un po'.