House of Guinness è una serie televisiva storico-drammatica creata da Steven Knight (famoso niente meno che per il fenomeno Peaky Blinders che ha consacrato Cillian Murphy), e che ha debuttato su Netflix il 25 settembre 2025. La prima stagione è composta da 8 episodi della durata di circa 50-60 minuti ciascuno, ed è proprio di questa che andremo a parlare nella nostra recensione. Nel cast principale troviamo attori come Anthony Boyle (Arthur Guinness), Louis Partridge (Edward Guinness), Emily Fairn (Anne Plunket Guinness), Fionn O’Shea (Benjamin “Ben” Guinness), oltre a nomi come James Norton, David Wilmot, Jack Gleeson e altri.
La serie si pone come una “saga familiare”, intrisa di potere, eredità e conflitti interiori: il mondo imprenditoriale, culturale e politico della famiglia Guinness nel XIX secolo, la morte del patriarca, le lotte intestine tra eredi, il tutto svicolando tra le tensioni sociali e politiche che circondano il birrificio e l’Irlanda dell’epoca.
Non solo birra
La vicenda prende ufficialmente il via nel 1868, con la morte di Sir Benjamin Lee Guinness, patriarca della famiglia Guinness, e con il testamento che scatena una lotta di eredità tra i suoi quattro figli: Arthur, Edward, Anne e Ben. Arthur ed Edward ottengono il controllo del birrificio, mentre Anne e Ben sono in gran parte esclusi dal potere diretto. Questa dinamica familiare diventa il motore degli intrighi, delle rivalità, delle lealtà tradite e dei segreti che emergono man mano. Come già vi ho anticipato, sullo sfondo si stagliano le tensioni politiche e sociali dell’Irlanda della seconda metà dell’ottocento: il rapporto con la Corona inglese, le aspirazioni nazionaliste, questioni di identità religiosa, classi sociali e lavorative.
La serie riesce a bilanciare i momenti più lirici o contemplativi con sequenze di tensione familiare: la gestione del birrificio, il peso delle aspettative, i ripensamenti, i sensi di colpa. Non tutto fila perfettamente, ma nei suoi migliori momenti House of Guinness dà la sensazione di essere qualcosa di più, dando un’idea e spunti di riflessione sul costo del successo, sul sacrificio e sulle maschere che ognuno si trova ad indossare.
La regia di Knight e gli attori
Per quanto riguarda la regia di Steven Knight utilizzata in House of Guinness, possiamo ritenerci abbastanza soddisfatti. Essa riflette pienamente la sua cifra autoriale, quella che già abbiamo visto in Peaky Blinders: ritmo teatrale, attenzione ai dettagli e un’estetica cupa ma elegante. Il bello sta anche nel lasciare che siano anche i silenzi a raccontare, uniti ai gesti e agli sguardi degli attori. Buono il ritmo, col tempo della narrazione che viene scandito non tanto dall’azione, quanto dalle tensioni interne dei personaggi.
Tipico anche l‘utilizzo della luce e dei colori, che crea un contrasto visivo potente tra gli interni e le scene esterne, fredde e cariche di nebbia. Knight sceglie un tono dove la musica e la fotografia diventano strumenti narrativi capaci di comunicare molto (insomma, squadra che vince non si cambia). Questo stile, denso e “atmosferico” ha contribuito a rendere House of Guinness visivamente ricca a livello visivo, ma forse anche un po’ troppo derivativa dai suoi precedenti lavori. Inoltre, potrebbe risultare un po’ lenta per chi cerca un ritmo televisivo più convenzionale.
Sul fronte delle interpretazioni degli attori, queste sono state effettivamente solide. Anthony Boyle offre un ritratto efficace di Arthur: uomo diviso tra il dovere ereditario e conflitti personali, mentre Louis Partridge nel ruolo di Edward si muove con determinazione, mostrando sia l’ambizione, sia i dilemmi morali che accompagnano la crescita del potere. Buone le interpretazioni anche di Emily Fairn, che è convincente come Anne, e di Fionn O’Shea, che entra bene nella psicologia di un personaggio tormentato da dipendenze e da una vita interiore complessa (ovviamente Ben). Anche i ruoli secondari aggiungono spessore, anche se alcune interpretazioni ci sono effettivamente sembrate molto meno “sentite”.
Qualcosa che andrebbe rivisto…
Naturalmente, non mancano i punti deboli, che soprattutto in questi casi è possibile si palesino. Effettivamente, soprattutto in Irlanda, sono state notate diverse imprecisioni storiche: passando dai dialoghi, fino ai costumi e alle rappresentazioni, che sembrano richiamare soprattutto degli stereotipi piuttosto che una realtà complessa. Il bilanciamento fra spettacolo e fedeltà storica è da rivedere quindi: la serie vuole intrattenere, e lo fa bene, ma ogni tanto paga lo scotto di semplificazioni che servono al racconto più che alla precisione dei fatti.
Nonostante la buona produzione e belle scenografie, come già accennato la serie non sempre riesce a evitare momenti di lentezza narrativa, soprattutto negli episodi centrali, dove l’azione si dilata un po’ per consentire introspezione. Non mancano inoltre un certo numero di cliché narrativi troppo esasperati, come la rivalità fra fratelli, il sacrificio personale, o alcune sottotrame sentimentali che sembrano talvolta scontate.

