Con Honey Don’t! Ethan Coen ci regala, insieme a Tricia Cooke, un noir che porta con sé tutti i tratti caratteristici della sua poetica: personaggi eccentrici, situazioni assurde, un’America che vive di contrasti e un’atmosfera sospesa tra commedia grottesca e dramma. Non è un film perfetto, e non ambisce a esserlo, ma ha quella qualità tipicamente coeniana di giocare con i generi, piegarli e talvolta deriderli, offrendo allo spettatore un’esperienza che resta a metà fra divertimento e straniamento.
La storia di un noir moderno
La protagonista, Honey O’Donahue, interpretata da una magnetica Margaret Qualley, è un’investigatrice privata che sa il fatto suo: una donna che sembra vivere fuori tempo massimo, immersa in un mondo fatto di motel polverosi, chiese evangeliche corrotte e relazioni sentimentali troppo complicate. Honey si muove in uno scenario che strizza l’occhio tanto al noir classico, quanto al pulp anni Novanta, con un’estetica retrò che mescola abiti sgargianti, luci al neon e strade bruciate dal sole californiano.
È un mondo riconoscibile, eppure leggermente deformato, come se guardassimo attraverso una lente ironica e malinconica contemporaneamente. La trama è volutamente caotica, frammentata, più interessata a mostrare i personaggi che a condurre una sequenza narrativa solida e lineare. Una potenziale cliente della protagonista muore in circostanze sospette, una chiesa isolata, condotta da un pastore lussurioso e carismatico (Chris Evans), si rivela il fulcro di traffici oscuri e situazioni losche, la nipote ribelle di Honey scompare, e nel mezzo c’è la relazione che la protagonista intrattiene con MG Falcone (Aubrey Plaza), agente dal fascino ambiguo. Più che il “cosa succede”, conta il “come succede”: il film, infatti, procede per episodi, per incontri e deviazioni, lasciando che l’assurdità della situazione parli per sé.
Il cuore pulsante del film è sicuramente Honey, personaggio queer al centro di una narrazione noir: una scelta che ribalta il genere dall’interno, lo rinfresca e lo rende più attuale. Non si tratta di un cliché patinato: Honey è una figura concreta, complessa, con mille sfaccettature, capace di vive il desiderio, il sesso, la fragilità e la rabbia. Questo suo realismo è evidente nelle scene con MG Falcone, che sono forse tra le più riuscite del film: capaci di fondere tensione, erotismo e ironia con incredibile naturalezza.
Una regia “frizzante”
Ethan Coen e Cooke giocano molto anche con i toni: a momenti sembra di essere dentro un noir sporco e teso, a tratti si vira verso la commedia grottesca con picchi di assurdo, altre volte, invece, il film si fa improvvisamente erotico o violento. Non sempre questo mix riesce a trovare l’equilibrio sperato: in alcune scene il passaggio appare troppo brusco, quasi improvviso, e lascia la sensazione che qualcosa stia sfuggendo di mano allo spettatore, ma c’è da dire che proprio questi squilibri contribuiscono al fascino del film. Honey Don’t! non vuole rassicurare lo spettatore, al contrario, vuole destabilizzarlo, farlo sorridere mentre assiste a un omicidio ridicolo, oppure lasciarlo in sospeso quando una storia d’amore si interrompe con un colpo di pistola.
La regia conserva lo stesso spirito di fondo presente nei film dei fratelli Coen: l’amore per i personaggi marginali, per le situazioni grottesche e per l’assurdità del destino; se Fargo mostrava come il male potesse nascondersi nella banalità quotidiana, Honey Don’t! mette in scena una quotidianità già intrisa di assurdità, dove nessuno sembra mai del tutto padrone delle proprie azioni. Tutti i personaggi, infatti, fanno parte di un progetto più grande, se dovessimo concentrarci sulle azioni dei singoli probabilmente non ne capiremmo l’uopo.
Margaret Qualley è la colonna portante del film, capace di dare vitalità e spessore a un personaggio che poteva facilmente diventare caricaturale. Il linguaggio corporeo è ironico e sensuale, riesce ad alternare senza troppi sforzi leggerezza e durezza, riuscendo a tenere in piedi anche momenti in cui la sceneggiatura si fa meno incisiva. Accanto a lei Aubrey Plaza, con la sua ambiguità controllata, arricchisce la narrazione in modo brillante. I personaggi secondari, invece, rimangono troppo vicini alla caricatura e alcune sottotrame si dissolvono senza trovare un vero compimento, sembrando fini a sé stesse, come se il film volesse lasciare alcuni quesiti aperti, irrisolti e parte di un mosaico incompleto.
In definitiva, Honey Don’t! è un film che intrattiene, sorprende e lascia qualche perplessità, senza annoiare. È un esercizio di stile che non nasconde i propri limiti, ma che nel complesso riesce a mantenere viva l’attenzione del pubblico e a farsi ricordare per la sua protagonista, la sua atmosfera polverosa e la sua vena ironica. Non è un capolavoro, né un passo falso, ma un tassello interessante nella filmografia di Ethan Coen.

