Anemone, opera prima di Ronan Day-Lewis, arriva nelle sale con inevitabili aspettative, dato che il suo debutto alla regia è accompagnato dal ritorno sullo schermo di Daniel Day-Lewis, una delle presenze più rarefatte e magnetiche del cinema contemporaneo. L’effetto, già prima della proiezione, è quello di trovarsi davanti a un film che pretende attenzione, uno di quei titoli che sembrano chiedere allo spettatore non solo di guardare, ma di ascoltare, di entrare in una zona emotiva e contemplativa che non appartiene più tanto al cinema “mainstream” quanto a quello più ricercato.
Silenzi, legami e scelte stilistiche
La storia è quella di due fratelli, Ray e Jem, un tempo molto vicini ma separati da anni di silenzi, colpe e traumi familiari che nessuno dei due ha veramente affrontato. Ray, interpretato da Day-Lewis vive ormai da tempo isolato nella natura, quasi inghiottito da un paesaggio che sembra rispecchiare la sua stessa interiorità spezzata. Jem, a cui dà volto un Sean Bean misurato e sorprendentemente fragile, decide di raggiungerlo per tentare di ricucire ciò che resta del loro legame. In mezzo a loro si muove anche Brian, il giovane figlio di Jem, alla ricerca di un’identità che non riesce a emanciparsi del tutto dal peso della genealogia familiare.
È un film che vive più di atmosfere che di sviluppo narrativo. Anemone non si affida al crescendo drammatico o alle rivelazioni improvvise; al contrario, procede per accumulo di piccoli gesti, sguardi trattenuti, parole che sembrano sempre sul punto di emergere ma che rimangono sulla punta della lingua, che non vengono dette.
L’impostazione è deliberatamente minimalista, quasi intimista, e la sceneggiatura sceglie di lasciare ai personaggi il compito di rivelarsi attraverso il ritmo lento della quotidianità piuttosto che attraverso una struttura narrativa rigida. È una scelta coerente, ma che può risultare divisiva: chi cerca un racconto lineare e compatto potrebbe trovarsi spaesato di fronte a un film che preferisce smarrirsi nei suoi silenzi.
Forza visiva e interpretazioni
Tuttavia, dal punto di vista visivo, Anemone mostra subito una mano sorprendentemente sicura. Ronan Day-Lewis dimostra una sensibilità estetica notevole, costruendo un mondo fatto di spazi vuoti, di paesaggi naturali che sembrano consumare i personaggi e di interni scarni dove la luce filtra come un’eco lontana. La fotografia è curatissima, e certe inquadrature hanno il respiro ampio di un cinema che non ha paura di prendersi tempo, di osservare, di lasciare sedimentare le emozioni. È una regia che guarda più alla tradizione europea del cinema d’autore che al linguaggio statunitense contemporaneo e in questo ha una sua coerenza precisa.
Allo stesso tempo, quella stessa cura formale rischia talvolta di diventare un limite. Ci sono momenti in cui il film sembra più innamorato delle sue immagini che interessato a portare avanti la storia o a far evolvere davvero i personaggi. Alcune sequenze contemplative risultano ripetitive. La scelta di dilatare il tempo narrativo non sempre trova un contrappeso emotivo sufficientemente forte. Non è un difetto che rovina l’opera, ma un elemento che emerge con chiarezza e che contribuisce a rendere Anemone un film che non tutti accoglieranno allo stesso modo.
La presenza di Daniel Day-Lewis, in tutto questo, è decisiva. L’attore torna con una prova che ricorda perché la sua assenza nelle sale sia sempre percepita come un vuoto. Ogni suo movimento, ogni pausa, ogni modulazione della voce è calibrata con la consueta precisione. Non è una performance clamorosa nel senso più ovvio del termine, ma piuttosto un’interpretazione interna, dolente, segnata da un dolore che non ha bisogno di essere esplicitato. È lui a reggere le parti più dense del film, ed è quando è in scena con Sean Bean che Anemone trova le sue vibrazioni più autentiche. Bean, dal canto suo, mette in scena un’interpretazione composta, che evita il melodramma e lavora di sottrazione: un contrappunto perfetto al magnetismo del collega.
Il film dialoga apertamente con temi complessi: la fragilità maschile, il peso delle aspettative familiari, la difficoltà di rielaborare un trauma senza cadere nella retorica del perdono. Lo fa con un tono sincero, privo di compiacimento, ma anche senza un vero slancio capace di trasformare queste riflessioni in un racconto pienamente compiuto. A volte sembra quasi che Anemone voglia raccontare troppo attraverso troppo poco, come se la sua stessa struttura minimalista non riuscisse a contenere l’ambizione emotiva che lo anima.
Alla fine, il risultato è un film complesso, imperfetto ma affascinante, che colpisce più per ciò che suggerisce che per ciò che mostra davvero. È un esordio coraggioso e visivamente maturo, sostenuto da un ritorno attoriale che da solo basterà a spingere molti a vederlo, ma è anche un’opera che richiede pazienza e disponibilità a lasciarsi trasportare in un flusso narrativo che non sempre sa dove debba andare. È probabile che divida: per alcuni sarà un film intimo e intenso, per altri un esercizio di stile troppo compiaciuto. In entrambi i casi, però, Anemone non lascia indifferenti, e questo, per un’opera prima, è già un merito notevole.
