Dani (Florence Pugh), una studentessa del college con problemi d’ansia, e il fidanzato Christian (Jack Reynor) sono in procinto di separarsi. Quando però un’orribile tragedia colpisce la ragazza, i due decidono di continuare la propria relazione. Nel tentativo di superare il lutto, Dani segue Christian e i suoi amici in un viaggio verso l’antica comune di Harga nelle Hälsingland svedesi dietro invito di Pelle (Vilhelm Blomgren), compagno di università di Christian e nativo del luogo, dove parteciperanno a una sacra celebrazione di mezza estate della durata di 9 giorni che ha luogo ogni 90 anni. Ma questa terra di luce eterna nasconde più di un segreto e ciò che doveva essere un’esperienza da sogno prenderà ben presto le pieghe di un incubo psichedelico.
Ad appena un anno di distanza dal suo folgorante esordio con Hereditary, Ari Aster torna al cinema con Midsommar – Il Villaggio dei Dannati, un horror bucolico a metà tra The Wicker Man di Robin Hardy e Sacrificio di Andrej Tarkovskij, con una buona dose di riferimenti al cinema di Ingmar Bergman, tanto amato dal regista. Un folk-horror per la generazione di backpackers, Midsommar mantiene tutti gli elementi (e i professionisti) che hanno già reso Hereditary un classico: la regia chirurgica di Ari Aster, la violenza crudele, sporadica ma intelligente, un’eccellente protagonista (Florence Pugh sostituisce Toni Colette nella migliore interpretazione della sua giovane carriera), la costruzione sottile di un senso di disagio, grazie soprattutto alla collaborazione vincente tra il regista e il suo DOP di fiducia Pawel Pogorzelski.
Un film sulla fine di una relazione che diventa una satira intelligente (anche se pleonastica) sui rapporti tra sessi, sulla mascolinità tossica in guerra con gli antichi misteri del sesso femminile e sulla moderna cultura del distacco e dell’egocentrismo, contrapposte ad arcaiche visioni di unità e a una società della condivisione e dell’empatia. Dedita, ironicamente, a osceni e violentissimi rituali pagani.
Il distacco dal primo film, al di là della rinuncia di un’ambientazione algida a favore di una nuova luce calda e luminosa ma aliena, a tratti claustrofobica, è l’attenzione quasi maniacale che Aster pone sul dettaglio, che si manifesta in maniera più evidente nella curatissima scenografia di Henrik Svennson, che funge all’interno del film da vero e proprio io narrante. Questa passione per il particolare, per l’elemento nascosto, gioca a sfavore di una storia e di un’ambientazione che avrebbero avuto necessità di essere esplorati con più attenzione, o almeno non lasciati solamente all’immaginazione dello spettatore, tanto più considerando che la lunghezza eccessiva del film avrebbe concesso ampie possibilità di rispondere ad alcune domande o luoghi d’interesse.
Ma al di là di questo, Midsommar rimane un film valido, che abbraccia la sua natura di genere riuscendo al contempo ad andare al di là della semplice storia dell’orrore, in un baccanale osceno e psichedelico che conferma il talento e la fresca intelligenza del suo giovane regista e le possibilità artistiche per la scena horror contemporanea.