Lucky, interpretato da Harry Dean Stanton, è un novantenne metodico e abitudinario, avvezzo alla solitudine, che vive in una casetta ai margini di una cittadina nel deserto. Ogni mattina si alza alla stessa ora e compie i soliti rituali. Per conservare una buona forma fisica esegue i cinque tibetani, sequenza di esercizi tipici della pratica yoga che conterrebbe il segreto dell’eterna giovinezza. Finché una mattina un improvviso mancamento innesca una serie di riflessioni sulla sua mortalità.
Al suo debutto dietro la macchina da presa, John Carroll Lynch centra il bersaglio realizzando una storia piccola, ma potente. Una lucida riflessione sulla caducità umana e sulla presa di coscienza della natura mortale di ogni individuo. A molti il suo nome non dirà niente, ma il novantenne Stanton è presente in ogni scena e, pur avendo all’attivo oltre 200 film, stavolta il suo talento puro brilla come l’oro in un’opera cucita su misura per lui. Su richiesta di John Carroll Lynch, Stanton si mette a nudo mostrando la pelle rugosa, il corpo scheletrico e dinoccolato, il volto segnato dal tempo che passa. L’attore mette al servizio sé stesso, la propria età e la propria anima in quella che è al tempo stesso opera sull’individuo e riflessione universale.
Il film non è una riflessione sulla morte, bensì sulla vita. Elucubrazioni di insospettabile profondità vengono messe in bocca a personaggi buffi, teneri, surreali, che si presentano sul cammino di Lucky. A cominciare dal suo migliore amico, Howard, interpretato dal regista David Lynch. Nel corso del film Howard appare angosciato per via della scomparsa della sua testuggine, Presidente Roosevelt, simulacro di una profonda riflessione sulla transitorietà dell’esistenza umana di fronte alla longevità dell’animale, simbolo di perseveranza e resistenza.
John Carroll Lynch dirige con cura un film piccolo e prezioso di cui è anche autore insieme a Logan Sparks e Drago Sumonja. Al di là dell’ammirevole asciuttezza, la presenza di Harry Dean Stanton rappresenta un vero e proprio omaggio alla storia del cinema. Il passo dinoccolato con cui Lucky deambula su e giù nel deserto è lo stesso con cui il veterano Stanton ha attraversato le pellicole di David Lynch, Francis Ford Coppola, Sam Peckinpah, John Carpenter e Wim Wenders (solo per citarne alcuni).
Il film è anche un tributo alle cittadine dell’entroterra degli USA, alle comunità che li abitano e che rappresentano il genuino tessuto sociale americano. Lucky è uno di loro. Scontroso, abitudinario, sincero e disarmante. L’anziano non è certo un santo, ma una persona vera, mostrata in quel frangente in cui il muro eretto per proteggersi dalle delusioni si incrina e la vita entra e scorre da una breccia. Di fronte alla presa di coscienza che nessuno è eterno, perfino Lucky ammette di avere paura. Paura di morire da solo. A sottolineare il suo stato d’animo ci pensa, in una delle scene più struggenti, la voce ruvida e profonda di Johnny Cash che sussurra And then I see a darkness, mentre un brivido corre lungo la schiena.