Vivere o morire non è mai stata una scelta. Sembra l’incipit di un romanzo horror di Stephen King, o di un action movie anni ’90 con Bruce Willis. Un concetto fatalista quasi scontato che, se associato alla malavita, assume significati ben più profondi e oscuri. In realtà, “c’è sempre la possibilità di scegliere”, dice il boss di Secondigliano Ciro Di Marzio (Marco D’Amore) alla sua nuova paranza, “ma poi è impossibile tornare indietro”, conclude. Lui lo sa bene. Ha perso tutto, prima di ogni altra cosa ha perso la sua famiglia. Ha deciso di non tornare più indietro, appunto. Scelse la via del “male” prima di uccidere sua moglie Deborah, addossata della sola colpa di non seguirlo nell’ambizione smodata che coltivava dentro: prendersi Napoli. Fame di potere che ha pagato anche con l’omicidio di sua figlia Maria Rita, dramma che lo ha segnato nel profondo, togliendogli tutto ciò di più caro che gli restava. Da quel momento non ha avuto più nessuno da proteggere, nessuna ragione per cui vivere. “Sono già morto”, sussurra con la solita voce rotta dal dolore. Si percepisce dallo sguardo corrucciato, sofferente, emozionale ma allo stesso tempo freddo, arido. Anche per questo aveva scelto di donare la sua vita per salvare l’amico Genny Savastano, “un fratello”, dice.
Una sorta di redenzione, sacrificio dovuto/voluto perché “non ho più niente da perdere, spiega a chi gli chiede i motivi del suo gesto, “lui invece aveva ancora qualcuno per cui valga la pena vivere” (riferendosi alla famiglia di Genny). Avevamo visto per l’ultima volta Ciro sprofondare nel Golfo di Napoli, ucciso con un colpo a bruciapelo per mano del suo stesso “compare” (costretto e armato dal rivale tradito Sangue Blu) in una delle scene più struggenti di tutta la serie. Vivere o morire non è mai stata una scelta. Anche per Ciro, l’Immortale. Nel finale della terza stagione, proprio mentre il suo corpo esanime sembrava inabissarsi, si riescono a intravedere piccole bolle d’aria fuoriuscire dalla bocca. Come anticipato dal trailer dello stand alone a lui dedicato, quella sequenza di “speranza” non era del tutto causale. Ciro Di Marzio è ancora vivo. E pensandoci bene, non poteva che essere altrimenti.
Lo sottintende il soprannome stesso, titolo del film. Riemerso dalle acque con le ultime forze, viene soccorso da un peschereccio e subito riconosciuto “è il boss di Secondigliano, che ne facciamo?”. L’idea dell’oligarchia camorrista è quella di nasconderlo da Genny: “nessuno deve sapere che sei ancora qui, hai la possibilità di cambiare vita”, gli prospetta Don Aniello (Nello Mascia), boss della “vecchia nobiltà”. Così non sarà. Non si può scappare dal proprio destino. E anche in Lituania, dove si è rifugiato, la Camorra lo costringerà a “battagliare ancora” per “ideali” ormai disattesi a cui non crede più, che quasi sembra rifiutare agendo come un fantasma che cammina. Troverà le motivazioni negli affetti di persone innocenti, soprattutto una ragazza madre che non ha mai vissuto nel suo stesso mondo criminale, ma che suscita in lui qualcosa che non provava da tempo: compassione. Proprio a Riga ritroverà per la sua strada Bruno (Salvatore D’Onofrio), suo vecchio mentore e padre putativo (Giovanni Vastarella, da giovane) mai capace di emergere davvero nelle gerarchie camorriste e per questo da sempre insoddisfatto. Trent’anni dopo Bruno vuole avere una seconda possibilità, è la sua occasione, proprio accanto a colui che aveva visto crescere.
È un modo per raccontarci il passato da orfano di Ciro con dei flashback, rimasti impressi nella memoria (in questi, interpretato in giovane età dal bravissimo Giuseppe Aiello). Ancora una volta Ciro non saprà più di chi fidarsi, trovandosi nel bel mezzo di una guerra intestina tra mafia russa e criminalità locale. “Non è la mia guerra”, ricorda. Eppure dovrà combatterla lo stesso. “Vedo un uomo solo che non desidera più niente”, dicono di lui alle sue spalle, “per questo non ho paura, perché non ho più nulla da perdere”, afferma. E quando gli fanno notare “vorrei essere proprio come te”, lui risponde: “Ho già perso tutto ciò che amavo per colpa mia, tu puoi fare di meglio”. Da bambino è stato subito costretto a guardare in faccia la morte, quella morte che – pur voluta e cercata – continua a non arrivare mai. Sopravvissuto tra le macerie di un terribile terremoto, Ciro è ancora in questo mondo, che lo voglia o no. “Il proiettile si è fermato a un centimetro dal cuore”, gli rivelano una volta uscito dal coma. Quel cuore che è già annegato più volte nel dolore. Fortuna o destino? Non è una scelta. Lui è l’Immortale. Ma tutti gli errori si pagano sempre, soprattutto in “Gomorra – La Serie”. La smania di potere ha un prezzo salatissimo, come cercare di essere quello che non si è per natura. L’hanno scontato sulla propria pelle in tanti, da “Tonino Spiderman” nella prima stagione, fino a Patrizia nella quarta. In attesa della quinta (e, forse, ultima) prevista nel 2020, “L’Immortale” (scritto e diretto da Marco D’Amore) fa da collegamento con lo svolgimento del filone principale, arrivato all’apice della catarsi, vicino alla conclusione.
La pellicola ricorda in parte i fatti avvenuti nel secondo episodio della terza stagione, sempre ambientato in Est Europa e con risvolti simili. Adesso ci aspetta un gran finale (speriamo), in cui non poteva di certo mancare la figura centrale di Ciro Di Marzio, in fondo protagonista assoluto della storia. Dopo aver diretto per la prima volta un episodio dell’ultima stagione – forse il più riuscito – Marco D’Amore si conferma regista promettente. Ha riempito intelligentemente la sceneggiatura di quella narrativa drammatica e noir che funziona e regge ancora bene in Gomorra, senza distaccarsi troppo da quello che abbiamo già visto, ma completandolo. Il mood dello spin-off è sempre lo stesso: loschi affari di droga tra potenti boss, sparatorie, esecuzioni, esplosioni, tradimenti e colpi di scena a profusione (un po’ meno inaspettati per chi ormai conosce a memoria la serie). Il consiglio di Genny Savastano resta valido anche per i protagonisti di questo film. Mai fidarsi di nessuno. Nemmeno di se stessi.