Burnout Paradise evoca nella memoria diversi ricordi legati alla scorsa generazione, in quell’esatto momento a cavallo tra la prima “cavalcata” e quella gloriosa che è poi morta con l’arrivo di PlayStation 4, Xbox One, Master Race, due console Nintendo, e via discorrendo. Un tempo in cui, in un preciso istante, si è passati da un certo tipo di intrattenimento ad un altro: dalla nicchia al grande pubblico, dalle sperimentazioni, ai prototipi, ai successi milionari.
Da Berlino 2006 a South Africa 2010 insomma, un intervallo di tempo scandito da due distinte “corse” dell’industria videoludica, in cui una ha passato il testimone all’altra. Burnout Paradise dicevamo, ha probabilmente incarnato questo passaggio alla perfezione, per quel che riguarda Electronic Arts: un prodotto a metà tra il sandbox automobilistico e l’arcade, un connubio di elementi di gameplay che lo rendevano granitico allora, e lo hanno fatto invecchiare, seppur non bruscamente, neanche troppo bene. La Remastered ci da l’occasione per guardare a questa saga con un occhio nostalgico, aperto a nuovi scenari ma anche critico.
Nato come ” L’altro”, ovvero il pezzo che andò a comporre il dualismo tra la serie più tamarra di Need for Speed con appunto quella di Burnout, un tempo posseduta non da EA ma dalla Acclaim, ma che ha di fatto raggiunto l’apice della popolarità con il terzo episodio, uscito nel settembre del 2004, chiamato Burnout 3: Takedown. Mentre l’una si focalizzava su aspetti diversi dal semplice racing game, come ad esempio il tuning, il parco auto, gli sfizi esteriori e tutto ciò che di bello Electronic Arts potesse tirare su dal mondo delle macchine modificate, Burnout aveva una direzione totalmente diversa.
Persino su Wikipedia, se andate ora sulla pagina principale della serie di Burnout, vi è un messaggio che non lascia molto spazio ad interpretazioni:
“La serie Burnout, specialmente a partire dal terzo episodio, è dedicata alla violenza stradale. Il gioco acclama per la bravura nel causare incidenti, nel buttare fuori gara gli avversari, nell’andare contromano, nell’esibirsi in derapate a velocità folli e in numerose altre occasioni.”
Un gioco quindi che non aveva proprio tutti i crismi per essere popolare in un periodo in cui si facevano (come si fa tutt’oggi ancora) molte pressioni verso il rispetto delle regole in strada, a partire dall’assunzione di alcool fino all’utilizzo dei cellulari o anche dell’attenzione per i pedoni. Invece Burnout si è rilevato un gioiello di arcade.
Sì perché il gioco anche qui va preso con le giuste pinze: il gameplay è frenetico, adatto a sessioni “mordi e fuggi” ma allo stesso tempo capace di incastrare ogni tipo di giocatore, specialmente i completisti e coloro fissati dal dover, perdonate il gioco di parole, “fissare” i record nella griglia dei migliori. In Burnout rivivevano tutte queste sensazioni, grazie anche a un calcolo dei punteggi che si è sempre rifatto a un’altra saga “estrema” ovvero quella di Tony Hawk.
In effetti, eseguire un Ollie o mantenere l’equilibrio su un corrimano di una scalinata dà gli stessi stimoli di una sterzata all’indirizzo della fiancata avversaria, oppure della classica tamponata da dietro. Certo non mancavano anche qui episodi pittoreschi come salti, rampe, testacoda, acrobazie in aria o anche semplicemente evitare di fare un bel frontale andando contro mano.
Col tempo, la serie ha perseguito, anche per scelta aziendale, una strada abbastanza sotto traccia pubblicando nuovi episodi su console via via meno appetibili per il pubblico “abituale” del franchise, pur comunque avendo coraggio con uscite dai contenuti sempre validi per quantità (e qualità) come ad esempio Burnout Legends, che uscì sia su PSP che su DS.
Il ritorno su home console non si fece attendere, ma dopo Burnout Paradise, più nulla. Forse anche maledetta da quel dualismo di cui parlavamo prima, EA dal 2010 in poi ha sempre puntato sul “bisogno di velocità” per quanto riguarda le corse automobilistiche, ritagliandosi una specifica fetta di questo mercato andando a incidere sempre di più sulla componente narrativa, donando alla saga anche un inaspettato film che cerca di scimmiottare alla meno peggio Fast & Furious, kolossal cinematografico che l’azienda di Redwood ha sempre cercato di imitare, almeno nel suo gioco di corse numero uno.
Ecco, in questa corsa verso un traguardo così difficile da raggiungere, Burnout ci ha lasciato le ossa. Nessuna notizia fino alla recente Remastered, che comunque questo rimane, nient’altro che una versione riveduta e ripulita in HD di un gioco di ben 7 anni fa. Eppure di un gioco come Burnout ne ha bisogno ogni giocatore, un’esperienza che ti fa accendere la console, spegnere i neuroni e che poi porta a ribaltare il processo e ad alzarsi dal divano senza per forza aver fatto grossi progressi, ma almeno avendo il volto rasserenato, lo stress e le pressioni alleggerite in una scorrazzata per le strade di Paradise City, che sembra davvero avere l’erba più verde come cantava Axl Rose.
Certo, sarebbe bello pure che la serie tornasse a pieno regime con un bel titolone nuovo, magari aggiungendo alla formula un comparto multigiocatore composto da hub e città sempre più popolose e popolate, la possibilità di cimentarsi in sfide online per capire chi è il migliore a zompare dal ponte di un autostrada e arrivare più lontano possibile e così via, lasciando partire l’immaginazione di tutti. Non credo che Electronic Arts abbia lanciato questa remastered solo per il gusto di farlo, ma avrà sicuramente voluto sondare il terreno per aprirsi in futuro alla possibilità di un nuovo Burnout. Sembra davvero strano, ma una delle software house più rinomate per i titoli sportivi si deve affidare a due esperienze completamente arcade per soddisfare i palati di giocatori affezionati a volante e pedali.
Non c’è colpa in questo, EA non deve compiere l’errore di fare giochi per corrispondere e rispettare una reputazione data da altri. Bensì, deve fare giochi che rispettino le attese dei fan e che facciano vivere un’esperienza che non deve per forza passare per la simulazione sportiva. Mi auguro (e spero) che il discorso di Burnout si possa estendere anche ad altri franchise che nel tempo sono “sopiti” come SSX, la serie “Street” delle varie NBA, NFL e FIFA, che condividono con Burnout la permanenza obbligata nella soffitta di casa EA, come anche un gameplay particolarmente adatto per delle partitine di 15/20 minuti. Spesso viene criticata proprio Electronic Arts per la poca varietà di titoli presenti nell’offerta al pubblico, specie in periodi in cui manca all’appello qualche titolone di Bioware, quando fino a dieci anni fa poteva vantare tanti di quei brand da far impallidire le moderne software house occidentali.
Forse un po’ è anche perché noi come consumatori siamo abituati a volere un prodotto che eccede le nostre possibilità nell’utilizzo: mi riferisco specialmente a giochi come FIFA o, per restare in tema, a Need for Speed, che hanno tantissime modalità ma che probabilmente per un giocatore accanito sono troppe, specie se nello stesso periodo deve farle convivere con altri titoli di altre software house (scenario comune a molti probabilmente). Mi accontenterei invece volentieri di poter alternare ogni tanto un gioco del genere con un altro titolo più rapido, che mi getti nella mischia da subito ma che non mi faccia sentire incompiuto ogni qualvolta vorrò terminare la mia partita.
Alla fine è proprio l’essenza stessa del videogiocare che è insita in Burnout sin dal primo capitolo: divertirsi, indipendentemente da ciò che produco nel gioco, dal game over fino all’end game. Il Paradiso, videoludicamente parlando.