James Gunn dopo essersi formato cinematograficamente grazie all’horror (passando per la scuola Troma, e più tardi lasciando ai posteri quel geniale horror che era Slither, senza dimenticare la parabola autoriale e distintiva con I Guardiani della Galassia) torna al suo genere prediletto, ma in veste di produttore, ideando insieme al suo clan (fratello e cugino) una storia dal sapore sovversivo, che mischia sapientemente il mito per il supereroe e la sua innata vena horrorifica. Affidano l’opera a David Yarovesky, giovane regista con un solo film alle spalle ma introdotto, ormai da tempo, nella cricca di Gunn. “Look! Up in the sky! It’s a bird! It’s a plane! It’s Superman!” No, questa volta non è Superman, ma è una favola dark che ci presenta un personaggio che ha più di un punto in contatto con l’alieno di Krypton. L’idea di base è banale ma altrettanto elettrizzante: cosa sarebbe successo se un’ipotetico Superman si fosse votato al male? L’angelo del Male – Brightburn reinventa l’ennesima declinazione supereroistica ma lo fa senza mezze misure. Dove in passato vi erano già film con superumani, tendenzialmente cupi e oscuri, devoti a fare “comunque” del bene (“Spawn”, “Il Corvo” etc) in Brightburn il ragazzino di dodici anni è un sadico che abbraccia totalmente la sua natura divina, e viene fin da subito affascinato dal lato oscuro del suo potere – lo ostenta e si distingue con orgoglio dalla massa come fosse un piccolo fanatico nazista – tramutandosi in un probabile serial killer senza via di ritorno. Un bambino che cade dal cielo, avvolto nell’iconico panno rosso – che come in Superman diventerà il suo mantello, ma qui anche una maschera grottesca dal volto allungato e intrecciato da strambi lacci, per poi ricollegarsi al rosso sangue delle sue vittime – viene accolto da una famiglia di campagna, buoni e irreprensibili come furono i Kent. La storia ci insegna che la conseguenza degli eventi sia necessariamente positiva, ma il clan Gunn si interroga su risvolti totalmente opposti. Il fallimento della famiglia è evidente: non sempre instillare il seme dell’amore fa germogliare in maniera scontata il bene. Il focus è concentrato tutto sulla sua consapevolezza di essere un’entità superiore e l’intrinseca tendenza omicida che esplora continuamente per rivendicare questo status. Un Kal-El smaliziato nelle uccisioni sempre più crudeli ed efferate, con un problema lampante di autocontrollo: diventerà sempre più sfacciato, esibizionista e poco soggetto a dissimulare continuamente, con la sana voglia di rivendicare la sua natura luciferina.
Immaginatevi un dodicenne nel pieno della sua pubertà, incazzato, represso, che scopre di essere un un’entità divina dai poteri illimitati; probabilmente, non proprio tutti arriverebbero alla conclusione scontata: adesso faccio del bene per l’umanità. La faccia scontrosa del piccolo Jackson Dunn è perfetta per incarnare il bambino malefico e repellente dallo sguardo torvo: sguardo che all’occorrenza si tramuterà in potenti raggi di calore rosso – proverbiale potere di Superman – per dilaniare qualsiasi cosa voglia. Il film sottolinea le probabili devianze del giovane e la sua dannazione personale, con dei particolari che accentuano questa sua pulsione per la violenza, la morte, i visceri umani e la simbologia esoterica. Il momento onanistico tipico dell’adolescenza non viene da lui contemplato nel senso più tradizionale del termine, ma troverà sfogo con delle particolari perversioni espresse attraverso alcuni disegni onirici: riempirà un quaderno con un marchio personale – una firma come manifesto – che varrà come la S per Superman, ma in questo caso con uno scopo meno altruistico. Queste sue ossessioni si scontreranno con un muro di incomprensione da parte dei genitori che si troveranno a bollare come semplice masturbazione la questione: cercheranno di affrontarla in maniera superficiale con l’espediente del classico “discorsetto”, sottovalutando in maniera lampante il problema di fondo. L’inadeguatezza della famiglia darà vita proprio a qualche segmento sarcastico per stemperare la situazione e permettendo al regista di giocare su altri toni. Non si sa nulla del retaggio di questo essere: il pianeta da cui proviene e la sua stirpe – probabilmente la esploreranno in un ipotetico sequel – per ora è importante solo l’allegoria di fondo che riguarda la famiglia tradizionale e i germi del bene che non riescono ad attecchire sempre e comunque. Anche Josh Trank nel 2012 aveva riflettuto sulla scoperta prematura dei poteri, l’immaturità del portatore e il loro utilizzo malevolo nell’ottimo Chronicle, film di tutt’altra pasta: più sottile, teso, e ben calibrato di questo. Brightburn, nonostante le riflessioni di base, è più grezzo e devoto al divertimento senza mezze misure, alternando effetti Cgi imperfetti ma funzionali, e violenza quanto basta per credere all’esistenza di un Superman in erba che ha perso totalmente il controllo. Una sorta di divertente e scanzonato Pilot, che si concede anche l’ennesimo spiraglio di continuità (tanto in voga ora) aprendo lo sguardo verso la creazione di un’ipotetica Justice League Dark dalle inedite tinte horror.