Un corpo in fiamme esce carponi dalla carcassa di un’auto e viene finito con dei colpi a bruciapelo. La brutalità di un’esecuzione irrompe improvvisa nelle prime sequenze di Una Vita Violenta schiacciando subito lo spettatore alla poltrona, ma chi sia quest’uomo e perché sia stato ucciso così lo scopriremo solo in seguito. Il film di Thierry De Perretti è un trattato sulla violenza ambientato in Corsica. Un luogo arcaico e fuori dal tempo che porta con sé varie tradizioni e mentalità. Una gemella della Sardegna, più piccola ma non per questo meno coriacea. Abitata da personalità dure che non si piegano mai. Probabilmente queste personalità così formate – come fossero un blocco di marmo – provengono dai retaggi di un passato tumultuoso e, contemporaneamente, sono la personificazione vivente della mentalità tipica di un abitante dell’isola-tipo in cui convivono la calma del mare e il carattere indomito contro ogni sopruso. Gli anni 70′ e 80′ hanno fatto da sfondo a spaccati di violenza su più livelli. Gli uomini e le donne di quella generazione sono stati protagonisti o spettatori di omicidi, attentati e famiglie decimate. Persone o amici che hanno scelto un sentiero impervio, incontrato persone sbagliate o perduto semplicemente le loro vite. Un periodo oscuro, che ha segnato profondamente il regista Thierry De Perretti, nato e cresciuto in questa terra così aspra, dove ha vissuto sulla propria pelle le tensioni e i trambusti di quel periodo.
Con questo film decide di rendere omaggio a tutti questi giovani che si sono persi – anche ideologicamente – cercando di dare una spiegazione e un’origine alla violenza intrinseca di quei momenti. La parabola di Stéphane (Jean Michelangeli) è l’emblema di quel momento particolare dove si faceva strada il nazionalismo, prendendo forma nel FLNC, il fronte nazionale di liberazione della Corsica. Stéphane è un borghesotto acculturato di Bastia che passa molto brevemente dalla piccola criminalità alla lotta politica. Sarà la morte di un caro amico a riportarlo nella sua terra natia per riflettere sul suo passato di criminale e militante. Il film tratta di eventi realmente accaduti ma reinterpreta quelle situazioni attualizzandole e cercando di raccontare uno spaccato di vita ben delineato, dove la violenza porge la mano verso l’autodistruzione. La stanza di Stéphane – da cui si può intravedere il poster di Akira (il film d’animazione giapponese di Katsuhiro Ōtomo) – è rappresentativa nel sottolineare l’animo tormentato che vive il protagonista nella prima fase della pellicola. Stéphane probabilmente si rivede nel personaggio di Kaneda, il leader di motociclisti legati al movimento di resistenza contro il controllo repressivo del governo di Neo-Tokyo. Ascolta Kurt Cobain parlare in tv, ammirandone la personalità e il suo stile di vita, mentre taccia di indolenza e menefreghismo chi gli sta vicino, soprattutto la fidanzata, che conduce una vita semplice e senza ideali a differenza della sua. Solo il rapporto fraterno con gli amici lo fa sentire soddisfatto, con quei momenti particolari, fatti di bevute e tentativi di elevare le loro azioni criminose a qualcosa di più significativo per il proprio paese e le proprie radici. Una decisione presa in maniera impavida e noncurante delle conseguenze lo catapulterà in una spirale di violenza, ma non prima di aver fatto una tappa nella prigione di stato dove conoscerà alcune personalità di spicco appartenenti ad ambienti estremisti. Insieme alle sue nuove e vecchie compagnie perpetrerà atti di violenza di ogni tipo e tutto nel nome della propria terra. Il film, anche attraverso le parole di alcuni esponenti del gruppo, fa un parallelismo con la Sicilia e la sua storia di lotta indipendentista in epoca passata, ma è possibile ritrovare delle analogie anche con i tempi moderni che stiamo vivendo. La pellicola è intrisa di un realismo fuori dal comune, le tensioni e le paure di quel periodo sono palpabili. La violenza quando esplode è fulminea e senza scampo. L’andamento sempre più alla deriva dei personaggi contribuisce nell’accentuare ancora di più questo spaesamento generale, dove la rabbia e le ostilità si manifestano in maniera deflagrante: scontri verbali, minacce, percosse, tutto sembra molto tangibile. Il film descrive la militanza in questi gruppi di facinorosi dove convivono mentalità diverse, tra chi lotta per scopi nobili ed altri che si avvicinano al movimento per mero opportunismo. La regia è curata e ben dosata in ogni passaggio: i momenti di familiarità fraterna e di cameratismo, dove lo spettatore sembra perfettamente calato nella situazione come fosse uno di loro, mentre si fa più documentaristica nei momenti di efferatezza degli attentati come se fossimo testimoni diretti degli eventi. Una Vita Violenta è un film duro ed epico che racconta una generazione sperduta e risucchiata in questo vortice di lotte intestine. Un periodo oscuro documentato con profondità viscerale da Thierry De Perretti, una lente di ingrandimento verso una generazione e una società che non ha mai dimenticato quei momenti. Cercando di esplorare la mente e le aspirazioni di quei giovani in quel determinato periodo storico, Perretti getta un ponte verso il presente, dove chiunque può identificarsi e commuoversi con questa storia di impegno e con il suo tradimento.