Il crimine perfetto è il crimine che non esiste.
Nella notte tra il 17 e il 18 Ottobre 1968 scompare dall’Oratorio di San Lorenzo un’opera inestimabile del Caravaggio, “La Natività“, così come scompare, subito dopo, Mauro De Mauro, il giornalista che per primo denuncia la sparizione del quadro sulle colonne del quotidiano “L’Ora”. Forse distrutto e fatto a pezzi, oppure venduto e sotto gli occhi di tutti, dopo mezzo secolo la sorte della “Natività” rimane un “mistero palermitano”. Un mistero che non poteva che essere ritenuto un’azione di mafia.
Valeria (Micaela Ramazzotti) lavora come segretaria in una fittizia casa di produzione e vive nello stesso pianerottolo con la madre Amalia (Laura Morante) affascinante e nevrotica ghost-writer del ministro della cultura. La propensione all’anonimato sembra scorrere in famiglia perché Valeria, segretamente, è l’autrice di tutte le sceneggiature dello sceneggiatore di successo Alessandro Pes (Alessandro Gassmann). Un giorno, Valeria incontra un uomo misterioso, un poliziotto in pensione (Renato Carpentieri) che le regala il soggetto per una storia “Una Storia senza Nome” che ruota intorno al misterioso furto della “Natività” di Caravaggio. Ma quel plot risulta presto pericoloso, e la sceneggiatrice si troverà in balia di un meccanismo pericoloso e rocambolesco, dove realtà e finzione si mischiano in un gorgo senza uscita.
“Una Storia Senza Nome – scrive Roberto Andò, regista del film – è un film sul cinema, un atto di fede ironico e paradossale, sulle sue capacità di investigare la realtà e trascenderla. Si è sempre sostenuto che l’immaginazione paghi il prezzo di una impotenza a priori: l’impossibilità di provocare effetti reali. Il mio film, in modo giocoso, e mi auguro divertente, mostra il contrario. Mi faceva piacere in un momento in cui il cinema appare più fragile e marginale, raccontare una storia al cui centro ci fosse un film e il suo misterioso. imprescindibile legame con la realtà”.
Il nuovo film di Roberto Andò, presentato in anteprima a Venezia nella categoria Orizzonti, è un film sicuramente originale, ma soprattutto ambizioso che ci pone di fronte i problemi della nostra industria cinematografica, ormai troppo distante dai grandi fasti del passato e sempre meno originale nel raccontare storie. Con un procedimento che ricorda la produzione cinematografica di Charlie Kaufman (Essere John Malkovich, Il Ladro di Orchidee) il regista racconta il making-of di un film, i suoi processi e le sue aspettative, le sue difficoltà creative e produttive, unendoci un particolare gusto per l’assurdo e per il meta-cinematografico. Oltre a ciò, Andò ragiona sui nuovi dispositivi di ripresa in una maniera non dissimile a Olivier Assayas e Leos Carax, senza contare i numerosi riferimenti all’epoca d’oro del cinema americano, soprattutto alla filmografia di Billy Wilder.
Queste sono tutte ambizioni più che ammirevoli, ma che il regista esplora con un certo qualunquismo di fondo e banalità della presentazione, con dialoghi e situazioni vagamente supponenti e compiaciute. L’adorabile ingenuità e semplicità che ispira Micaela Ramazzotti (e che, in più di un’occasione, le ha fatto guadagnare il plauso di pubblico e critica) mal si adatta al ruolo di Valeria, facendola risultare una tontolona inspiegabilmente scaltra e che sopravvive solo grazie alla banale fortuna. Una Storia senza Nome in sé non è particolarmente sgradevole, ma viste le tante e importanti ambizioni di fondo, non si può che constatare con quanta distanza ha mancato l’obbiettivo. Forse si è eccessivi o troppo severi, ma solo perché nel nostro cinema, in un equilibrio sempre più sottile tra originalità e banalità, ogni minimo sbaglio creativo rischia di compromettere la fiducia verso nuove storie e nuovi autori di produttori sempre meno propensi a correre rischi.