Dustborn Recensione, una parola vale più di mille gesti

Red Thread Games propone un'avventura narrativa dalla premessa avvincente, cui purtroppo non fa seguito un gameplay limato a dovere.

Alessandro Giovannini
Di Alessandro Giovannini - Staff Writer Recensioni Lettura da 17 minuti
6.5 Sufficiente
Dustborn

«In principio era il Verbo». Così inizia il vangelo di Giovanni, e sembra quasi che lo sviluppatore Red Thread Games ne abbia fatto l’architrave della narrativa di Dustborn, un’avventura dinamica pubblicata da Spotlight, l’etichetta di Quantic Dream dedicata al publishing di terze parti.

Facendo del linguaggio il suo nucleo tematico, il gioco imbastisce una narrazione di grande suggestione e attualità, riflettendo politicamente sul presente storico e sullo stato dell’informazione e dei mass media nelle società occidentali. Purtroppo a tali premesse affascinanti fa seguito un gameplay confuso e minato da una mancanza di direzione chiara, che inficia in modo importante la riuscita dell’operazione.

In principio era il Protolinguaggio

Dustborn è ambientato in un’America post-apocalittica, in cui però l’Apocalisse non è stata causata da una  guerra o da un disastro nucleare, bensì da un’epidemia di disinformazione. Il Broadcast, così viene chiamato, è l’incidente scatenante che ha causato il collasso mentale di buona parte della popolazione, infettata dai virus dei cattivi linguaggi: propaganda, complotti, fake news e chi più ne ha più ne metta, hanno contribuito a far crollare qualsiasi certezza circa lo statuto di verità della parola.

on the road
Dustborn ci porta a scorrazzare per quel che resta dell’America

Morale: sospetto, paranoia e pugno di ferro hanno precipitato ciò che resta degli USA in una precaria Repubblica organizzata in 6 macro-regioni e retta da un governo centrale dai connotati dittatoriali, vaste porzioni di territorio completamente abbandonate, stati allo sbando in cui imperversano bande di predoni senza tetto né legge e movimenti clandestini di opposizione al regime che agiscono tramite reti sotterranee di informazione analogica e dunque non tracciabile.

In questo contesto vestiamo i panni di Pax, un’Anomala: si tratta di individui che, successivamente al Broadcast, hanno ottenuto la capacità di emettere poteri vocali detti Vox, con i quali possono modificare la realtà che li circonda. Ogni Anomalo ha un suo particolare Vox, che li rende in grado di manipolare le menti altrui, impartire ordini, diventare fortissimi o piegare le leggi della fisica a loro piacimento. Tutto grazie alla misteriosa conoscenza e pronuncia di vocaboli misteriosi, che vengono identificati dagli scienziati come fonemi appartenenti al Protolinguaggio, sorta di lingua primordiale dalla quale si sarebbero originate tutte le altre.

Inutile dire che sono molte le organizzazioni, governative e non, interessate ad approfondire lo studio del Protolinguaggio e dei poteri da esso derivanti. Motivo per cui gli Anomali sono considerati schegge impazzite e pericolose, reietti da isolare o perseguire attivamente, costretti a vivere sotto mentite spoglie o ai margini della società.

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Pax e la sua amica Sai parlano del Broadcast

Pax e alcuni suoi amici vivono questa condizione di vergogna e pericolo da tutta la vita, costretti a mentire e nascondersi dalla società. Finché non si presenta l’opportunità di cambiare vita, sotto forma di lavoro ad alto rischio: rubare un misterioso database da un centro di ricerca dei Puritani (tecnocrati invasati anti-Anomali) a Pacifica, sulla costa ovest, e consegnarla al quartier generale dei ribelli in Nuova Scozia, sulla sponda atlantica, in cambio della promessa di libertà e ricchezza.

Il colpo però non va nel migliore dei modi, il gruppo è scoperto e inizia una fuga attraverso tutta l’America, con la più improbabile delle coperture: essere una band musicale impegnata in un tour coast-to-coast. Il nome della band? Dustborn, appunto.

fumetto
Interagire coi compagni di squadra cambia i loro connotati caratteriali

Non è la prima volta che un videogioco riflette sulla potenza del linguaggio e la sua capacità quasi magica di influenzare la realtà (vedere alla voce Metal Gear Solid V: The Phantom Pain), ma Dustborn ha il  merito di farne il suo perno narrativo in un’epoca in cui l’informazione, la comunicazione e la valenza politica del linguaggio sono materia centrale di quotidiani dibattiti nella società civile europea e americana. Trattare una materia così complessa nello spazio di un’avventura di 15 ore scarse non era da tutti, ma gli autori di Red Thread Games ci sono riusciti in modo convincente, con il merito aggiuntivo di aver scritto una storia dai toni mai eccessivamente melodrammatici, anzi compensati da momenti scanzonati e uno sguardo tutto sommato positivo e speranzoso per un futuro in cui ciascuno possa fare la differenza.

Tournée

A bordo di un pulmino arrangiato per l’occasione, la nostra band si muoverà da una tappa all’altra attraversando vari scenari dell’America profonda. Il gameplay loop di Dustborn alterna fasi che si ripetono in modo abbastanza regolare: chiacchiere sul bus tra una meta e l’altra, accampamento notturno prima di riprendere il viaggio, discesa nella tappa stabilita con relativa esplorazione. In questo impianto la fanno da padrone meccaniche proprie delle avventure narrative, o se preferite dei walking sim: lunghi e articolati dialoghi con i compagni di viaggio e riflessioni personali immerse in ambientazioni gradevoli da vedere e suggestive da esplorare.

Dustborn però non si limita a questo, e tenta di arricchire l’offerta ludica con elementi spuri provenienti dai generi più diversi. Nel gioco sono presenti diverse sequenze di combattimento, oltre a fasi rhythm game coincidenti con le esibizioni musicali, occasionali intermezzi puzzle e qualche minigioco buttato nel mucchio, e onestamente non troppo riuscito. Questa varietà dovrebbe aggiungere ricchezza e profondità alla formula di gioco, elevandolo al rango di un’avvincente avventura dinamica.

Dustborn viaggio
Ci aspetta un lungo viaggio

Purtroppo però, come vedremo meglio fra poco, la sovrabbondanza di eterogeneità non è implementata con intelligenza, e finisce per produrre una confusione generale. Dustborn si sforza di non essere solamente un gioco narrativo, ma non riesce a decidersi su cos’alto voglia essere effettivamente: questa incertezza di direzione penalizza l’esperienza complessiva, che avrebbe probabilmente beneficiato di una maggior compattezza e un focus totale sulla narrativa. Un difetto che appare congenito alle pubblicazioni Quantic Dream, dato che anche Under the Waves soffriva di problemi analoghi.

Peccato, perché la lore del gioco è affascinante, i personaggi ben scritti e lo svolgimento dell’intreccio potenzialmente efficace. Si fa presto ad affezionarsi alla band sotto copertura, in cui tutti i personaggi sono ben caratterizzati e dotati di una personalità distintiva. Certo, si tratta di una tale banda di outsiders da far impallidire i protagonisti di It di Stephen King (che non a caso aveva denominato il suo gruppo di eroi “i Perdenti“).

Ma pur essendo un incredibile concentrato di emarginati (tra identità non binarie, minoranze etniche, handicap fisici, dilemmi religiosi e l’immancabile androide che inizia a sviluppare emozioni umane) i nostri eroi non si piangono addosso né cercano assoluzione o comprensione da parte della società: rivendicano anzi la propria unicità senza grandi proclami, semplicemente agendo e rapportandosi tra loro e col resto del mondo come persone a tutto tondo e non come portabandiera di questa o quella categoria sotto-rappresentata.

La storia è suddivisa in capitoli e, se l’esito generale non è influenzato dalle nsotre azioni, avremo comunque possibilità di plasmare alcuni eventi minori, nonché il rapporto che si va a costituire tra Pax e i suoi compagni. Inoltre le nostre scelte influiranno in certa misura sull’esito della storia, in particolare riguardo le decisioni finali di Pax e il destino di alcuni personaggi.

I difetti di Dustborn insomma non sono nella scrittura, come detto, bensì nell’esecuzione. Praticamente nessuna delle istanze di gameplay proposte da Dustborn risulta appagante, per varie ragioni, e questo fallimento finisce per limitare fortemente la resa generale di un progetto che meritava più cura e concretezza.

Gameplay: abbiamo un problema

Consideriamo le fasi esplorative: raggiunta la tappa prefissata, il nostro gruppo di eroi si ritrova in un nuovo scenario, costituito di volta in volta stazioni di rifornimento abbandonate, diners scalcinati, misteriosi centri di ricerca governativi e altro ancora. L’esplorazione di questi ambienti si articola in un mix di risoluzione di enigmi, dialoghi, e/o interazioni con i compagni per venire a capo di vari problemi e proseguire nell’avventura. Potremo anche raccogliere Echi (frammenti di disinformazione prodotti dal Broadcast) con i quali potremo forgiare nuovi Vox da usare in combattimento o in altri momenti di gioco.

dustborn esplorazione
Una fase puzzle

Sulla carta sembrano esserci le premesse per promettenti sezioni investigative, in cui ricorrere alla nostra materia grigia per superare rompicapo ambientali o sfoderare arguzie diplomatiche per gestire dei confronti pericolosi. Nei fatti però è tutto molto più essenziale. Gli elementi interattivi sono pochi, tutti evidenziati da appositi indicatori. Gli “enigmi” presenti sono assai basilari, e riguardano prevalentemente il superamento di ostacoli fisici o porte blindate.

Siccome non c’è un inventario propriamente detto (gli unici oggetti che si possono raccogliere sono ninnoli da regalare ai compagni di squadra per migliorare il  nostro rapporto con loro), il tutto si riduce a compiere azioni nel giusto ordine, spesso con una lentezza esasperante e sopportando l’ottusità della protagonista che non esegue subito il comando più ovvio  perché il gioco costringe a una sequenza di input predeterminati.

In altri casi dovremo ricorrere all’aiuto dei nostri compagni, decidendo chi di loro far interagire con determinati elementi dello scenario. Qualora fossimo incerti, basterà provarli tutti finché non si risolverà il problema. Insomma si può dire che le fasi puzzle di Dustborn siano solo di facciata, poiché il livello di sfida da esse proposto sia di fatto inesistente. Ma che la difficoltà del gioco non sia una priorità degli sviluppatori è evidente dalle fasi di combattimento.

Dustborn è privo di game over, e adotta un espediente di soccorso immediato del giocatore in caso di K.O. che di fatto annulla qualsiasi difficoltà legata al combattimento: quasi una reminiscenza del controverso design anti-morte del Prince of Persia del 2008 – tra gli episodi più divisivi della serie e che curiosamente condivide con Dustborn l’estetica cel shading. Ciononostante gli sviluppatori hanno comunque sentito l’esigenza di aggiungere un’opzione per semplificare queste fasi, cosa che sconsiglio di fare per mantenere un briciolo senso di sfida all’interno del gioco.

dustborn combattimento
Una scazzottata in Dustborn

I combattimenti sono delle scazzottate tra i nostri eroi e membri di una delle tre fazioni nemiche che ci ostacoleranno nel corso dell’avventura. Ogni fazione ha uno stile di combattimento leggermente diverso, ma ciò non cambia quello che farete all’atto pratico: menare a destra e a manca qualche decina di avversari con la vostra mazza. Il combat system prevede un attacco rapido concatenabile, un attacco pesante la cui riuscita dipende dalla corretta risoluzione di un QTE, e alcuni attacchi speciali.

Questi ultimi consistono nell’utilizzare i Vox come strumenti di attacco, modificando per qualche istante il comportamento degli avversari: potremo spingerli lontano da noi, bloccarli sul posto, confonderli per farli attaccare tra loro, demoralizzarli per renderli inermi e così via. Non tutti i Vox sono efficaci con tutte le fazioni, inoltre alcuni di essi funzionano solo in sinergia con gli attacchi di determinanti compagni di squadra, e saranno inefficaci in loro assenza. Da notare che in combattimento avremo solamente il  controllo di Pax, ma i nostri compagni ci daranno occasionalmente una mano.

Detto così sembrerebbe un sistema intuitivo e divertente: purtroppo però un sistema di collisioni non perfetto, una mobilità problematica del personaggio e una telecamera delinquenziale – e priva di lock on – sono freni importanti all’efficacia del sistema, che si dimostra poco responsivo, ripetitivo e non particolarmente divertente. Qualche sparuta “boss fight” aggiunge un po’ di varietà a una formula che altrimenti finirebbe presto per stancare, e si finisce paradossalmente a sperare che tali fasi durino il  meno possibile. Un triste esito per un gioco che ha la presunzione di definirsi action-adventure!

Infine, anche le parentesi musicali falliscono nell’obiettivo di conferire personalità alla formula di Dustborn. In primo luogo sono molte meno di quanto ci si aspetterebbe, data l’importanza che questo elemento ricopre nell’economia narrativa del titolo. Le occasioni per “suonare” si riducono a 4-5 in tutto il gioco. Volendo ci si può esercitare in alcuni momenti di pausa, ma non ne avrete davvero bisogno. Le fasi musicali consistono in segmenti da rhythm game in cui dovremo premere i quattro tasti principali con il gusto tempismo, attivando occasionalmente un boost di punteggio con il grilletto destro.

dustborn canzone
Copisci quelle note!

Potremo esibirci in una manciata di canzoni, che Pax andrà a comporre nei momenti di pausa o di viaggio tra una tappa e l’altra (ma solo se vorremo farlo; in caso contrario andremo avanti tutto il gioco a suonare la stessa canzone). Al termine dell’esibizione ci verrà assegnato un punteggio che non avrà alcuna ricaduta effettiva sul gameplay, e solo in pochissimi momenti la qualità delle performance avrà effettive conseguenze (non particolarmente significative) sullo sviluppo dell’intreccio. L’ennesima occasione sprecata, insomma.

A conti fatti l’unico altro comparto convincente di Dustborn eccetto la narrativa è quello artistico: la grafica in cel-shading offre personaggi e ambienti dotati di un’estetica accattivante, a fronte di una mole poligonale non straordinaria e di una mimica facciale migliorabile. La palette cromatica vivace ben si sposa con i suggestivi paesaggi americani, siano essi aridi deserti o catene montuose innevate. C’è inoltre un gradevole inserimento di balloons e tavole in stile fumetto che riassume le vicende di gioco alla conclusione di ogni capitolo, sposando alla grande l’estetica sgargiante della produzione.

Dustborn striscia
Una striscia a fumetti di fine capitolo

La regia delle sequenze scriptate mostra invece il fianco a probabili limiti di budget (o di know-how degli animatori), che spesso costringono a mandare a nero una sequenza proprio nel suo momento più spettacolare, lasciando che l’esito della stessa si evinca a posteriori dai dialoghi tra i personaggi, non esattamente il massimo del coinvolgimento emotivo! Meglio il comparto audio, che offre un doppiaggio discreto e confeziona diverse canzoni originali: gradevoli motivetti punk-rock che dispiace non siano presenti più numerosi.

Dustborn
Sufficiente 6.5
Voto 6.5
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Cinema e videogiochi: le mie due più grandi passioni. Da bambino mi alzavo presto per giocare con il Sega Mega Drive II prima di andare a scuola; al pomeriggio guardavo Terminator 2 fino a consumare il nastro della VHS; di sera mi cimentavo nelle avventure grafiche di Lucas Arts sul glorioso PC con Windows 95. Poi sono venuti gli studi e la laurea in cinema oltre al lavoro come videomaker freelance. In tutto ciò non ho mai abbandonato il gaming, che ho combinato con la mia passione per la scrittura e il mio approccio analitico.