Se c’era una serie Capcom che meritava di tornare, quella era Onimusha. Dopo la rimasterizzazione di Warlords nel 2019 il silenzio era assordante, ma oggi, a cinque anni di distanza, Samurai’s Destiny rientra nell’arena con un trattamento che profuma di rispetto filologico e, allo stesso tempo, di moderata rivoluzione. Ho trascorso circa cinque ore con la build preview – fino al recupero della seconda delle cinque Oni Orbs – e la sensazione è chiara: non siamo di fronte a un lifting pigro, bensì a un’operazione chirurgica che ricuce il passato e lo mette a dieta proteica per il pubblico moderno.
Un cambio di katana (e di volto)
La prima frattura con Warlords è identitaria: Samanosuke lascia il palcoscenico a Jubei Yagyu. Il suo rientro al villaggio natale devastato dal Genma di Nobunaga Oda dà il via a una trama di vendetta e redenzione in puro sapore chanbara, ma con uno spirito più scanzonato. Jubei è meno austero, più propenso al dialogo e all’osservazione ironica, qualità che si riflette nei toni dell’avventura: l’orrore soprannaturale resta, ma compaiono lampi di leggerezza quasi da Kurosawa meets anime dei primi Duemila.
Questa sfumatura conta perché permette a Samurai’s Destiny di distinguersi nettamente dal predecessore. Laddove Warlords puntava su atmosfere claustrofobiche e micro-storie sussurrate, il sequel abbraccia una struttura più aperta, un cast corale e linee narrative che si intrecciano al villaggio Imasho, la vera novità di design.
Imasho: cuore pulsante e specchio delle tue scelte
Il villaggio minerario funge da hub: dopo ogni segmento di missione si torna qui a respirare, chiacchierare coi residenti, acquistare consumabili, scoprire che il fabbro ha cambiato merce o che un edificio è crollato. È una piccola rivoluzione per la serie, perché trasforma le “pause tra i capitoli” in momenti di world-building. Vedere i PNG reagire agli eventi – dal semplice pettegolezzo al panico per l’avanzata dei demoni – rende più tangibile il peso dell’impresa.
A ciò si aggiunge la presenza di quattro comprimari principali: parliamo di Ekei, Magoichi, Kotaro e Oyu, personaggi molto interessanti, ciascuno con background, preferenze e obiettivi personali. In battaglia si potrà soccorrerli per guadagnare punti “affinità”, mentre quando si è a Imasho ci si possono scambiare doni: ad esempio un gioiello raffinato farà la gioia di Oyu, un’arma da fuoco ben oliata conquisterà Magoichi. Azzeccare (o sbagliare) regalo porta a ramificazioni narrative e variazioni nel roster che affiancherà il giocatore nelle boss-fight. È una meccanica quasi da dating-sim nascosta in un action feudale: sorprende, funziona e amplifica la rigiocabilità, perché la curiosità di vedere chi ti salverà il collo la prossima volta è tanta.
Combat system: quando il passato sposa la velocità
Capcom ha promesso che avrebbe lavorato sulla “quality of life”, e la promessa è stata mantenuta. Ad esempio i Tank controls sono ora Facoltativi: se l’analogico “binario” in passato faceva impazzire, ora ci si può spostare con la fluidità dei moderni hack & slash. Per le armi è stato invece aggiunto lo switch in tempo reale, che evita al giocatore di dover mettere in pausa per cambiare: basta un bumper e la katana cede il passo alla lancia elementale in un frame, cosa che fa una differenza fondamentale sul ritmo degli scontri.
Altra modifica importante è l’attivazione della Modalità Onimusha, dove al contrario del gioco originale, raccogliere certe anime attivava automaticamente lo stato ultra-potente, qui viene immagazzinato per essere scatenato a piacimento. Ultima ma non per importanza, la difficoltà: la story mode è molto permissiva, mentre la hard mode punisce ogni dodge tardivo. Un modo intelligente di non alienare i neofiti né annoiare i veterani.
Sul feeling dei colpi il remake non tradisce. I parry istantanei – marchio Onimusha – restano la via più elegante per disintegrare un Genma, mentre le magie elementali, ora più accessibili grazie allo switch rapido, spingono a combinazioni flash: gelare un bruto, spezzargli la guardia con la lancia fulminea, poi finirlo a katana con animazione in slow-motion.
Bellezza e narrazione: un equilibrio di vendetta e leggerezza
L’elemento tecnico forse più sorprendente è l’upscaling dei fondali prerenderizzati. L’occhio allenato riconosce le inquadrature a camera fissa degli anni 2000, ma la definizione è rinnovata: texture scrostate delle palizzate, fil di fumo dalle lanterne, giochi di luce su fiumi di lava. Capcom non ha dettagliato la pipeline, ma il risultato ha del miracoloso: nessun effetto “pittura a olio impastata”, tutto è uniforme e integrato con i nuovi modelli 3D, anche loro potenziati in poligoni e materiali PBR. Il comparto audio segue a ruota: colonne sonore rimasterizzate, effetti “clang” di katana che risuonano puliti, doppiaggio inglese rinfrescato e, per i puristi, track giapponese senza compressioni.
Dal punto di vista narrativo, Samurai’s Destiny sfoggia una vena quasi da road-movie. Jubei non è il guerriero solitario, è un ronin che incrocia marinai ubriachi, mercanti interessati e demoniazzi che parlano come cabarettisti. La scrittura dosa pathos e ironia, regalando momenti inusuali per la serie: dialoghi dove si scherza sull’avidità di Ekei, gag visive quando Kotaro scivola da un tetto, melodramma puro quando Oyu affronta il trauma di famiglia. Questa miscela conferisce personalità autonoma al titolo. Non vuole replicare l’horror aristocratico di Warlords, ma nemmeno diventare un cartone. Sceglie la via di mezzo, ossequiosa verso il jidaigeki ma con quella scaltrezza narrativa che oggi associamo alle produzioni action RPG orientali.
Nel suo intento di modernizzare senza snaturare, Onimusha 2: Samurai’s Destiny Remaster centra quasi tutti gli obiettivi. Combattimento più snello, contenuti narrativi espansi e un comparto tecnico che “trucca” il prerenderizzato meglio di tanti remake full 3D. Ma la vera chiave del suo fascino è la struttura a hub sociale: Imasho e le relazioni con gli alleati regalano identità e interattività là dove il primo capitolo scivolava in linearità. E ora, appuntamento al 23 maggio!

