Al crepuscolo di novembre, ogni anno, i videogiocatori hanno un solo pensiero per la testa, dopo il black friday: le nomination ai The Game Awards. Un momento che trova sempre un posto sul calendario della community e che, ogni anno, diventa fonte di dibattito, di circolazione di idee, soddisfazione per aver visto il proprio pupillo di turno assicurarsi tante nomination o, al contrario, aver visto il proprio gioco preferito dell’anno “venire snobbato” dalla critica.
In questo momento dell’anno che, a discapito delle temperature, appare tra i più caldi per il mondo dei videogiochi, tante sono le considerazioni che si possono fare: le nomination sono meritate? Chi vincerà nelle varie categorie? Chi si aggiudicherà il titolo di GOTY? Pur essendo questo un articolo di opinione, non è di questi dilemmi (che reputiamo sostanzialmente soggettivi) che abbiamo intenzione di parlare in questa sede.
Piuttosto, ci avviciniamo in punta di piedi al calore di questo fuoco di campanilismi sui social e tifo da stadio per fare luce ad una considerazione forse più generica, forse più effettivamente profonda di una diretta espressione di preferenza. Facciamo lo sforzo (nemmeno troppo faticoso ora come ora, ma ci arriviamo) di allontanarci dai grandi nomi, gli studi maestosi e budget smisurati delle grandi produzioni, per avventurarci tra quei piccoli gruppi, quelle riunioni improvvisate e quelle notti di semplice e pura ispirazione in cui presumibilmente hanno preso vita le idee più vincenti, e memorabilmente degne di menzione, dell’anno.

Indie: da sogni in un cassetto ad uno strapotere del settore
Le nomination al GOTY dei TGA di quest’anno parlano chiaro: 3 giochi su 6, sono degli indie. I titoli in questione sono, tra l’altro, dei punti di riferimento importantissimi a livello di storia dello sviluppo indipendente. Abbiamo Clair Obscur: Expedition 33, titolo che non ha certamente bisogno di presentazioni, tra i più brillanti esempi di RPG a turni dai tempi dei migliori Final Fantasy. L’opera prima di un team fondato sull’esperienza dei singoli elementi (numerosi membri ai vertici sono EX-Ubisoft) che ha dimostrato che, se non si mette un freno a comprovata creatività e capacità, possono venire a galla opere che riescono ad incidere positivamente sul pubblico, pur allontanandosi dagli standard moderni.
Passiamo poi a Hollow Knight Silksong: la seconda opera del piccolissimo Team Cherry, sequel di uno dei più grandi fenomeni dell’indie videoludico, è stato a lungo oggetto di attesa e ironia da parte del web, ma dopo oltre 6 anni dall’annuncio i fatti hanno parlato chiaro. Un titolo capace, nella sua apparente semplicità, di bloccare gli store di tutto il mondo al suo lancio, che ha monopolizzato il mondo del videogioco ricevendo, inoltre, grandi elogi dalla stampa specializzata, che l’ha inserito di diritto nell’Olimpo del genere metrodivania.
Per ultimo, per ordine di uscita e non certo per importanza, abbiamo Hades II: il sequel della scommessa vincente di Supergiant Games è un elogio alla serietà della pazienza: il team di sviluppo non si è affrettato, sull’onda dell’incredibile successo di Hades, nel concepire un successivo capitolo frettoloso, ma ha anzi tirato fuori dal cilindro un progetto che conferma un’avvenuta evoluzione, partendo già da un livello qualitativo molto alto.

Chi conosce i videogiocatori meglio di essi stessi?
Fatte queste presentazioni non certo necessarie, possiamo però osservare con più attenzione uno schema che accomuna questi 3 progetti in un’unica parola: anticonformismo. Gli ultimi dieci anni di storia dei videogiochi sembrano tracciare un’unica strada per avere un titolo di successo: open world, action possibilmente in terza persona, quantità di cose da vedere, di cose da fare e di ore da passare su un prodotto incredibilmente alta, grafica che tende al realismo. Ci è sembrato in più di un’occasione che fosse impossibile riuscire a portare in scena un prodotto vincente senza questi elementi: il 2025 ci dimostra che quello in cui credevamo non era che autoconvenzione.
In un anno dove Assassin’s Creed resta sugli scaffali, in cui Doom esce allo scoperto passando sostanzialmente in sordina e Mario Kart fa parlare di sé, più che per il gioco in quanto tale, per il suo prezzo, sono quei piccoli studi che si intestardiscono su generi considerati di secondo piano ad emergere e convincere critica e soprattutto pubblico.
Con buonissima probabilità, il gioco dell’anno sarà un RPG a turni (non erano morti con gli ultimi esponenti di Final Fantasy?), un metroidvania (che ancora fatichiamo a distinguere dal platform per la sola presenza delle due dimensioni) o un roguelike (e l’anno scorso c’era Balatro a rappresentare il genere). Stiamo parlando di generi considerati troppo vecchi e limitati per il mondo dei videogiochi attuale, con pretesti narrativi e strutture considerabili indigeste, uno stile artistico che sfugge alla piatta ricerca del realismo a tutti i costi.
Siamo davvero sicuri che i giocatori non vogliano proprio questo?
Questa domanda non può che affiorare nella nostra testa, fatte queste considerazioni: se i titoli grandi ma vuoti, con un prezzo spesso giustificato solo dalla ammontare di ore di gioco che promettono, non riescono più a tenere il passo a produzioni piccole ma mai anonime, non è che forse siamo caduti nella trappola di pensare che non fosse proprio questo quello che volevamo?

L’ascesa del mercato videoludico indipendente non si avvia nel 2025, ma si sviluppa per arrivare fino a questo punto, sebbene più prudentemente e silenziosamente, da più di dieci anni: dieci anni che abbiamo passato, coscientemente o meno, a sbuffare di fronte all’annuncio del nuovo open world identico a quello prima, assistendo ad un vero e proprio appiattimento di generi e saghe storiche.
Nel 2025 videoludico ci insegna una cosa fondamentale: ricordarci che il videogioco non è dimostrazione di potenza tecnica ed economica, ma espressione di capacità artistica e di saper intrattenere. Per definire questa riflessione in poche parole, potremmo benissimo dire che il 2025 videoludico ci insegna a tornare a pensare con la nostra testa, creando delle aspettative che sono reali, legate alla fruizione di un contenuto qualitativo e non al consumo di una merce che, fino ad ora, si è venduta piuttosto bene.