Reacher è la serie thriller basata sui romanzi di Lee Child, scrittore britannico, sviluppata da Nick Santora e interpretata da uno straordinario Alan Ritchson che, a differenza di Tom Cruise interprete dei due film dedicati al personaggio, riesce ad incarnare al meglio la presenza fisica di Jack Reacher, forte di una muscolatura e un’espressività unica. In questa recensione ci troviamo di fronte ad un impasse: la terza stagione di Reacher infatti non sottrae nulla, ma non aggiunge nemmeno niente a quanto già visto nelle prime due.

Un’altra missione scellerata
Il fantasma Jack Reacher gira per l’America con il suo fidato spazzolino da denti, pochi soldi in tasca e nessuna prospettiva per il futuro. L’interesse dell’ex ispettore militare, questa volta, risiede in un ragazzo figlio di un grande imprenditore (tanto grande quanto misterioso). Nel corso degli eventi, Reacher si ritroverà a stringere (controvoglia come sempre) rapporti interpersonali con chi orbita attorno al ragazzo, non solo verso il padre dello stesso (suo vero obbiettivo) ma anche con la “servitù” che si trova in questa immensa villa, protetta notte e giorno da un’energumeno alto due metri e venti, capace di far sembrare un “bambino” il nostro nerboruto protagonista.
Per ragioni tecniche non possiamo dire nulla circa la trama in oggetto, in quanto si tratta di un thriller e ogni dettaglio o parola in più potrebbe sfociare nello spoiler, per cui tacciamo sulla trama ma non sul suo svolgimento. Il vero tallone d’Achille della serie è appunto lo svolgimento degli eventi che, se nelle prime due stagioni sapeva di fresco e innovativo, qui scade nel banale e nel déjà-vu più becero che possa esserci: Jack Reacher si fa gli affari suoi, qualcuno lo coinvolge nella solita ingiustizia all’americana ed ecco che il nostro “Batman” entra in azione per vendicare i torti e raddrizzare le cose. Sembra una sorta di Equalizer più macho, e la cosa inizia a stancare, obbiettivamente.

Cucito addosso
Il ruolo di Jack Reacher sembra di fatto costruito sull’attore Alan Ritchson, che di fatto non sbaglia nulla: il problema è che tutto sembra uguale a prima, perfino lo svolgimento dell’azione e la dinamica degli eventi, al punto che si capisce in anticipo in che puntata ci saranno i plot-twist, quando, e chi potrebbe rimetterci la pelle, con la consapevolezza che al massimo il protagonista verrà ammaccato e che gli altri sono “utili ma non indispensabili”.
Sam Hill, regista degli episodi di fatto non ha colpe sulla trama del prodotto, anzi fa di tutto per consegnarci tagli intriganti e per offrire l’azione al meglio, ma qui purtroppo a mostrare il fianco sono proprio la trama di base, la scrittura e lo svolgimento degli eventi, deludente. Se non avete mai visto (improbabile) un poliziesco o un thriller, potreste trovarlo interessante, ma altrimenti siamo di fronte ad una prova di livello elementare.
Sonya Cassidy invece ci ha stupito molto: nel ruolo dell’agente Duffy dell’FBI l’attrice si dimostra una spalla all’altezza (filosofica ndr) del nostro Jack Reacher, fornendo una controparte femminile al personaggio davvero “tosta” ma fragile là dove serve. Il suo personaggio è probabilmente il più credibile di questa stagione, e indubbiamente il più indimenticabile, in quanto ha molte scene interessanti e quasi mai banali.

Entrare e uscire
Le trame di Jack Reacher sono tutto sommato simili: il personaggio entra a gamba tesa, come un wrestler sul ring, nella vita delle persone per sconvolgerle, ripagare i torti e poi scomparire di nuovo (sempre con il fido spazzolino). Se questo è intrigante ed emozionante nelle prime fasi d’approccio, dopo due stagioni diventa ripetitivo e scontato, e aggiungeremmo banale.
La serie può ampiamente essere vista, se siete fan del protagonista o se avete una scellerata passione per il genere (come chi vi scrive), ma di fatto bisogna dire le cose come stanno e questa è, fuor di dubbio, la peggiore stagione della serie. Non arriva all’insufficienza, è chiaro ma tutto sembra scontato e poco credibile.