Due anni fa comincia a circolare una voce: dice che c’è un tatuatore di Cosenza che sta facendo Pokémon Rosso in versione malatissima. Tipo che Squirtle ha una vagina al posto della testa. Quel tatuatore si chiama Michele Falcone e quel gioco, Plaguemon, è solo una delle sue creazioni bellissime. Michele è un digital artist, programmatore, designer, ideatore di cose fiche. Dai toys all’apparel, Hiki è la definizione vivente di artista poliedrico. Ci sentimmo la prima volta un annetto fa dopo una story su Instagram. Tra dieci minuti lo chiamo su Discord, siete invitati. Andiamo?
“Lo sai che ho comprato Plaguemon sia nella versione base che nell’Anniversary Edition e non lo dico per leccarti il culo?”
“Questo fa già parte dell’intervista?”
“Cominciamo dall’inizio dell’inizio. Tu parti come tatuatore giusto?”
“Io parto innanzitutto come bambino: ero fissato con i pupazzetti, i modellini, ne adoravo i design, soprattutto quelli nipponici. Mi sono sempre appassionato alla progettazione e alla caratterizzazione dei personaggi di fantasia, quindi già da piccolino pensavo di voler fare il fumettista. Per questo appena finito il liceo cominciai a seguire vari corsi di fumetto, scuole di comics e cose così. In tutto questo, dentro di me rimanevo appassionato di videogames, una passione travolgente ma a cui non davo mai sbocco. Odiavo la matematica e pensavo che per sviluppare videogiochi, tra calcoli e tutto, si dovesse masticarla bene. Meno male che mi sbagliavo.”
“Quand’è invece che c’è stato lo switch e hai capito la tua strada nel gaming?”
“Come ti dicevo io mi sono da subito riconosciuto nella creazione di videogiochi ma contemporaneamente questo mondo mi spaventava. Il lato matematico sicuramente c’era ma niente che con la passione non si possa superare. Cominciai a sconfiggere questa paura piano piano: ogni tanto mi scaricavo Game Maker e facevo qualcosa. Giravo per software digitali imparando un po’ da ognuno: scaricai FL Studio quando ancora era sconosciuto. Oppure mi ricordo un tutorial in cui c’era questa pallina che dovevi fare muovere. Al primo tentativo ci misi un intero pomeriggio, la volta dopo poche ore: le stesse cose adesso le faccio di routine in qualche minuto. Solo che all’inizio mi demoralizzai: vedevo che ci mettevo comunque troppo rispetto alle mie aspettative e pensai che forse davvero non facesse per me. Tornai a disegnare.”
“A quel punto immagino sia stata dura fare i conti con la demoralizzazione”
“Parecchio. Poi all’improvviso ci ho riprovato tanti anni dopo. Mi sono detto, ma ero cretino io o è davvero così difficile. Eh, ero un po’ cretino io. Quello che facciamo nella nostra vita dipende molto anche dal momento in cui lo facciamo e così all’improvviso la famosa pallina si muoveva. Da lì sono riuscito a rimuovere questa negatività che avevo addosso e ho iniziato a fare giochi flash che mettevo sul mio browser o su Newgrounds. Erano le mie prime creazioni, i miei primi impegni artistici: il primo gioco in assoluto fu un html5 programmato con Game Maker. Si chiamava Super Suora Destruction.”
“Nel tuo stile artistico c’è un grande richiamo al Retro Gaming. Quello da dove deriva?”
“Se qualcosa mi piace, mi interessa al punto giusto, decido sempre di cercare di arrivare alla sua forma più arcaica. Questo, con l’aggiunta che i ricordi della mia infanzia, come quelli di molti della mia generazione, sono legati al gaming su console, ecco che si trasforma in un amore viscerale per il Game Boy o per lo SNES. Io ho un amore fortissimo, fortissimo e anacronistico per il NES. Questo perché per me – nato nel 90 e quindi già una generazione avanti a lui – come per i jeans dei fratelli più grandi, ricevetti il mio NES da mio cugino, che era appena passato allo SNES. Era già troppo vecchia come console, ma io non lo sapevo: me ne innamorai fortissimamente perché ogni giorno mi regalava così tanti collegamenti onirici, così tanti sogni.”
“C’è sempre molta nostalgia nei tuoi discorsi, molti richiami anacronistici, una forma di disagio quasi, di bisogno di distaccarsi dal contemporaneo”
“Questo concetto della malinconia, del guardare all’indietro, credo si possa leggere come un volersi distaccare dal presente e allo stesso tempo un giocare con il passato per creare cose nuove. Sento in me tutta una vena nichilista quando penso al quotidiano e allo stesso tempo una grande nostalgia e un affetto immenso per la mia infanzia: forse perché non era ancora tutto una merda. O forse semplicemente non la vedevo e ne conoscevo di meno. Poi c’è tutto un discordo di legame tecnico dei primordi della mia passione, un po’ come la “fissazione” dei cristiani per la natalità. E davvero tornando al NES, quello è stato il Gesù bambino dei videogiochi. Il precursore di un nuovo modo di intendere il mondo intorno a noi.”
“Quale pensi che sia la tua missione, nel tuo campo?”
“Mmm non lo so. Banalmente, estremamente banalmente, quello che cerco di fare è fondere tra loro un mix di tutti quegli artisti e di quegl’influssi giapponesi che mi piacciono, tutti riletti in una chiave videoludica retro ma futuristica. Questo mi porta sempre a bei esperimenti: l’altro giorno lavoravo su una PSP. È partito tutto dal ragionamento: se il retro gaming di oggi è il Game Boy, quale sarà il retro gaming di domani? Questa stessa definizione è un ossimoro. Poi figurati, probabilmente in futuro non esisteranno più hardware di riferimento quanto software. E questo spesso mi porta a pensare al futuro dei videogames: molte arti con il tempo sono morte, altre si sono riformulate. Chissà cosa succederà al gaming”
“Disturbo e ripetizione, glitch e pattern consecutivi. Sono un altro punto di rifermento di molte tue opere. Me le racconti dal tuo punto di vista?”
“La ripetitività come modello pattern e il disturbo come disagio. Nella prima mi rifarei al filone artistico della pop art generata da prodotti commerciali denaturati ed elevati ad arte. Forse perché in una società ultra-capitalistica è quasi l’ultima cosa che puoi dire. Sul disturbo invece, fra tutti questi movimenti psicologici e onirici che mi caratterizzano, rimane una forma di disturbo di base che è innegabile: c’è stato un periodo che a livello informatico mi piaceva tanto giocare sui cicli veglia-sonno tanto delle macchine quanto riferito agli umani.“
“Vedo che metti tutto te stesso nei tuoi lavori, fino a farti male forse. Vivi molto la tua arte come una sfida, uno spingersi al limite. “
“Assolutamente. Quando iniziai a sviluppare in Game Maker comincia a dirmi ok, ora passo ad Assembly, uno dei linguaggi più difficili. Ragiono sempre così: pensa al Plaguemon Breeder, il Tamagotchi dei Plaguemon. Ho cominciato a modificare una Sony PocketStation per un prodotto in stile Plague. Dopo qualche tempo ho deciso di mollare perché mi sono accorto di starmi fissando troppo a dare un’essenza animista al Breeder. Ero così preso che era diventato qualcosa di intimo, me lo sentivo proprio dentro, una sfida emotiva con me stesso: iniziai a stare letteralmente male mentre lo sviluppavo. Credo che in generale esistano artisti che hanno relazioni più distaccate, razionali, con le proprie opere e artisti che ne hanno invece di più intime e viscerali. Tu che hai una relazione più riflessiva con la tua arte riesci a svolgerla meglio a livello lavorativo, funzionerà in maniera più efficace anche nel marketing, magari. Ma rispetto all’artista più equilibrato, credo che l’artista sanguigno e carnale riesca ad imprimere delle visioni ancora più estreme e genuine alle sue opere.”
“Pensi che Plaguemon ti abbia un po’ maledetto? Un successo così grande ti fa diventare automaticamente “quello dei Pokémon strani” o no? “
“Non voglio minimamente paragonarmi a chi sto per citare, ma neanche lontanamente, ma perfino per me, grande appassionato di Kurt Cobain, lui resterà sempre quello di Nevermind e di Smells Like Teen Spirit. Soprattutto resterà “quello che si è sparato in testa”. Ci sono opere che per forza di cose ti segnano agl’occhi del pubblico e il primo titolo che ti da forma a livello di fama è anche quello che poi ti segna imprescindibilmente. Non l’avrebbe detto nessuno vedendo gli inizi di Plaguemon: neanch’io mi aspettavo sinceramente che andasse così.”
“Il futuro. Hai progetti, cose su cui stai già lavorando?”
“Mi piacerebbe tornare a Tokyo, adoro il Giappone: vorrei poter creare qualcosa basandomi proprio su questo istinto. Pensa che dovevo andare l’8 marzo scorso e poi sappiamo com’è andata. Vorrei stare lì un mesetto e progettare qualcosa proprio là: magari un piccolo gioco o una parte di un progetto più grande. Poi sicuramente in lista ho il Tamagotchi. E contemporaneamente sto portando avanti un discorso legato all’apparel di Plague Labs, il mio laboratorio artistico: esce qualcosa praticamente ogni mese.”
“Questo è un altro tema che mi interessa. Davanti ad una tua opera mi sento sempre perso in un paradosso: da una parte c’è l’allontanamento da questa realtà, dal contesto urbano, come in un ripudio del concreto, dall’altro invece un continuo richiamo ai quartieri di Tokyo, alla cultura pop massificata, agli anime, al gaming.”
” Io amo la natura, gli spazi aperti… non lo so, vedo molta decadenza nelle città. Pensa anche al fatto del mio amore per il retrogaming: perché produrre altre console, altra plastica, se abbiamo ancora le vecchie che possono darci qualcosa? A quel punto scatta un desiderio di allontanamento, avverto la realtà che ci circonda come finta e ho solo voglia di andare via. Contemporaneamente in me c’è anche tanta voglia di voler lasciare un’impronta su un mondo di cui mi sento comunque garante: che bello sapere che le scimmie del futuro possano trovare una cartuccia di un mio gioco. Ho bisogno della natura e paradossalmente ho bisogno anche tanto del videogioco, forse proprio perché lo avverto come un mondo più reale di quello reale“
“La tua è un arte molto impattante già alla prima occhiata. Ti è mai capitato che questa tua caratteristica diventasse un limite? L’arte non ha bisogno per forza di significato, ma in quanti vanno oltre la superficie fica delle tue opere più cerebrali per cercare nuovi livelli di lettura?”
“Mh. Prendi come esempio Plaguemon. Lo Squirtle con la vagina è una delle prime cose che vedi appena avvii. Allo stesso tempo, ci sono cose più nascoste che sono praticamente irraggiungibili. Come a dire: se ci sei arrivato è perché ci dovevi arrivare. L’altro giorno un ragazzo si è messo a decodificare un codice binario che avevo nascosto nel gioco e mi ha scritto. È una dinamica che si sviluppa in più livelli su ogni opera e questa polivalenza del mio lavoro mi dà sempre molta soddisfazione”
“Domande finite. Volevo fare quest’intervista da troppo., quindi grazie. Seguo Instagram per sapere quando c’è il drop delle maglie nuove?”
“Trovi tutto lì”
A fine intervista chiudo Discord contento. È la prima volta che faccio un intervista di questo format online e non faccia a faccia, però mi sento contento uguale. Ci vuole un’apocalisse dentro per regalare un sorriso a chi abbiamo intorno, ci vuole un tatuatore di Cosenza con i demoni in testa per creare bellezza sugli schermi del tuo vecchio Game Boy. Oggi ho conosciuto una persona bella, l’avete conosciuta un po’ pure voi: questa volta non ci sono sushi o forni artigianali dove invitarvi a leggere l’intervista del mese, ma è ok così, no? E comunque ora vado a casa di mia madre a vedere se trovo la scatola con le vecchie console: mi faccio tutto Plaguemon col volume altissimo finché i vicini non violano il coprifuoco per venirmi a prendere. Sento il bisogno fortissimo di tornare il me bambino di domani. Ve lo lascio il link allo store Plague Labs? Ve lo lascio. Ecco qua. Un abbraccio!