“In Alaska è molto difficile prevedere il tempo. Può cambiare all’improvviso. Molti dicono che questo è il clima peggiore del mondo”. Sono pochissimi i videogiochi che con la loro pubblicazione hanno avuto un impatto diretto non soltanto sulle schiere degli specifici appassionati, ma sul medium stesso, andando a plasmare il suo successivo viaggio, aprendone ulteriormente le possibilità. Metal Gear Solid è uno di quei videogiochi, un progetto che non soltanto si sviluppa dalla mente di un autore che ha cercato in tutti i modi di superare i suoi limiti e quelli della “macchina”, ma trovando una visione che sfruttasse al meglio le possibilità dell’epoca, in un’esperienza pronta ad andare oltre il semplice intrattenimento ludico. Perché ancora oggi si parla di Metal Gear Solid con profondo rispetto? Perché l’amore verso questo videogioco si è immediatamente proiettato addosso a colui che ha congegnato il tutto, elevandolo nell’Olimpo dei creativi contemporanei?
Il 21 ottobre del 1998 vede l’uscita di Metal Gear Solid in America, su Playstation 1, (in Giappone arrivò il 3 settembre, mentre in Italia si dovrà attendere il febbraio dell’anno successivo), presentando il tutto come un videogioco dalle caratteristiche stealth apparentemente simile ai suoi predecessori, se non fosse per la grafica tridimensionale. Ci troviamo in un periodo storico in cui molte saghe videoludiche cominciano a sperimentare con le potenzialità tecniche delle nuove console, trasponendo le proprie idee in un insieme di dettagli estetici e strutturali che hanno gettato le basi di una generazione che ancora oggi guarda a quello specifico passato con una certa nostalgia. Anche Metal Gear Solid sembra muoversi in questa direzione, se non fosse che Hideo Kojima, il succitato autore, ha cercato di tratteggiare questa sua nuova opera non soltanto alla luce delle nuove potenzialità tecniche suddette, ma cercando di imprimere un vero e proprio marchio autoriale sull’intera opera in uscita.
Il tentativo di plasmare ogni cosa attraverso un tocco riconoscibile è soltanto uno dei tanti tasselli fondamentali a distinguere il gioco da ogni altro prodotto del periodo, imprimendo al suo interno una sorta di anima immortale e sperimentale che ancora oggi dà moltissimo su cui riflettere. La voglia di costruire un vero e proprio contenitore, un ibrido al cui interno troviamo perfettamente assemblate sia le potenzialità dell’epoca, sia una moltitudine di elementi appartenenti anche ad altre dimensioni dell’intrattenimento, in una storia pronta ad elevarsi, attingendo dalla dimensione cinematografica di allora per poi superarne tutti i limiti di sorta.
“Dimensione cinematografica” proprio perché non si può non parlare di cinema quando si parla di Metal Gear Solid, e dei tentativi formali di un autore pronto a modellare i lineamenti figurativi della sua stessa opera, elevandone l’identità attraverso un linguaggio che si fa regia, colonna sonora, dialoghi studiati e profondi e un’attenzione maniacale verso il realismo alla base dell’esperienza complessiva. Tutto l’amore folle di Kojima verso il cinema ritorna e tenta in tutti i modi di trasformare un prodotto interattivo in qualcos’altro, in un vero e proprio viaggio in cui l’immersione si centralizza non soltanto intorno all’eroe di turno, ma intorno e addosso alla persona che stringe il joypad nelle proprie mani, arrivando a suscitare qualcosa di più profondo e indelebile.
La genesi di Metal Gear Solid
“Sono solo un uomo che sa fare bene il suo lavoro. Uccidere. Un mercenario non vince e non perde, gli unici vincitori in guerra sono le persone”. Le primissime riflessioni in merito ad un nuovo capitolo della saga di Metal Gear risalgono al 1994, con Kojima che all’epoca avrebbe voluto vederlo sviluppato per la console 3DO Active Multiplayer (anche nominata 3DO), sperando che avrebbe supportato dal punto di vista tecnico quelle che erano le sue idee per il progetto. La fievole popolarità dei due precedenti capitoli della saga, usciti su MSX, fu una delle motivazioni che spinsero Kojima alla decisione di intitolare il tutto Metal Gear Solid, al posto di Metal Gear 3, inoltre la parola “Solid” non andava solamente a legarsi al protagonista stesso, Solid Snake, ma anche al fatto che per la prima volta la saga stesse passando dalla precedente bidimensionalità al 3D (allo stato “solido” quindi).
Inoltre, già nel 1994 i primi concept art di alcuni protagonisti (membri della FOXHOUND, Meryl Silverburgh e Solid Snake), realizzati da Yoji Shinkawa, sono facilmente riscontrabili all’interno di Policenauts: Pilot Disk, cd pubblicato prima dell’uscita ufficiale del videogioco omonimo (Policenauts non era altro che un’avventura grafica di fantascienza, diretta da Kojima con Konami, uscita nel ’94 su PC-9821, l’anno seguente su 3DO in una sorta di remake e nel ’96 su Sega Saturn e su Playstation 1. Il tutto, purtroppo, non è mai stato ufficialmente pubblicato al di fuori del suolo giapponese. Resta comunque curioso trovarne qualche piccola citazione visiva all’interno di Metal Gear Solid stesso).
A metà del 1995, comunque, iniziano i lavori dietro a questo nuovo Metal Gear Solid. Il team di sviluppatori ad affiancare Kojima era inizialmente composto da una decina di persone, per poi ampliarsi arrivando ad essere una trentina (alcuni di questi avevano avuto precedenti esperienze con l’autore in fase di sviluppo, avendo collaborato con lui ai precedenti Policenauts e Snatcher). Come scritto anche sopra, il realismo degli eventi trattati e del contesto in cui ci si sarebbe immersi, giocò e gioca un ruolo centrale. Kojima voleva che il suo videogioco fosse il più dettagliato possibile non soltanto dal punto di vista della scrittura (scrittura che qui diventa immediatamente sceneggiatura, data la mole di dialoghi presenti nel titolo e il loro peso fondamentale), ma anche da quello dell’estetica delle scenografie in cui il protagonista avrebbe mosso i suoi passi. Da ciò uno studio specifico per la messa in scena di ogni singolo luogo visitabile all’interno del gioco, cercando di spingere al massimo le possibilità tecniche di una Playstation 1 che cerca di fare del suo meglio legandosi alla visione dell’autore.
Così in Metal Gear Solid ci si muove in un ambiente che risulta estremamente credibile ancora oggi, pur con tutti i limiti del caso. L’attenzione verso la costruzione di questi si muove lungo i posti più centrali per la trama, impegnandosi anche nel disegnare tutto il resto. Così non sarà raro, all’interno del gioco, l’entrare in una stanza qualsiasi trovandola perfettamente costruita seguendo i suoi stilemi reali, dal punto di vista estetico. Uffici con scrivanie adornate di libri, documenti e computer, hangar abitati dalle forme più spaventose che la guerra possa offrire (missili, carri armati e armi di vaio genere), boschi congelati dal continuo soffiare del vento di un’Alaska che riesci a sentire sulla tua stessa pelle, con questa neve che continua a cadere ininterrottamente avvolta dal buio di una notte che sembra infinita, sale macchine infarcite di computer, server e strumenti informatici avanzatissimi per l’epoca, torri per le telecomunicazioni, bagni, uffici privati…
La maniacale attenzione in fase di sviluppo, però, non si soffermò solamente alle scenografie del titolo. Nel corso delle primissime fasi venne immediatamente coinvolto nel progetto Motosada Mori (un esperto di armi il quale si occupò di rendere queste ultime le più realistiche possibili, in concomitanza con le ricerche fatte a Fort Irwin e in altre gite all’interno delle possibilità belliche in contesti anche cinematografici, con alcune dimostrazioni militari attuate dal team SWAT di Huntington Beach). Tutto ciò influì direttamente sulle armi stesse e sulle modalità di utilizzo disponibili per il personaggio e per il giocatore, ma anche sulla gigantesca mole di dettagli legati ad ambientazione e alle armi stesse, fornite da alcuni specifici dialoghi di due personaggi con cui è possibile parlare nel corso della nostra avventura: Benedict McDonnell “Master” Miller e Nastasha Romanenko.
Parlando, invece, della caratterizzazione estetica dei personaggi principali, andando a vedere nel dettaglio di Solid Snake, questi vennero concepiti e realizzati da Yoji Shinkawa. Per il nostro protagonista egli ha attinto all’estetica di alcuni attori della Hollywood di quel periodo, legati nello specifico al genere action: Jean-Claude Vandamme (per il fisico statuario del nostro eroe leggendario) e Christopher Walken (per i lineamenti del suo volto), riallacciandosi anche con il suo stesso nome in codice al mondo del cinema (il titolo, infatti, cita molti film action precedenti tra cui 1997: Fuga da New York di Carpenter). Nel corso del processo creativo alla base dei vari protagonisti Shinkawa passò dalle possibilità creative della carta stampata, alla costruzione di statue in argilla, così da facilitare in qualche modo quelli che sarebbero stati gli step successivi per ognuno di loro. Una volta completate queste ultime, con le dovute e specifiche colorazioni a pennello, ogni statuina venne modellata all’interno del gioco tramite i lineamenti con i pixel, ancorati sempre ai limiti dell’epoca.
Un elemento fondamentale e memorabile di Metal Gear Solid resta la sua colonna sonora (mantenendo una sua speciale coerenza espressiva anche in tutti i capitoli successivi). Questa risulta ancora oggi uno degli elementi più incisivi dell’intera esperienza. Alcune delle melodie presenti all’interno del titolo, infatti, non hanno mai del tutto abbandonato la saga, assumendo una valenza simbolica e immortale, quasi distaccata dal gioco stesso, e connessa direttamente alla sua storia e alle singole tematiche in essa trattate. Nel corso dello sviluppo del titolo Kojima avrebbe voluto rendere il sonoro molto più interattivo con quello che accadeva sullo schermo, direttamente connesso all’azione e alle scelte del giocatore nelle varie occasioni, delineando nuovamente una visione parecchio cinematografica. Una sorta di sistema musicale dinamico strettamente legato alle vicende in atto. I limiti tecnici dell’epoca però non gli consentirono di realizzare questa idea, proiettandola direttamente nei capitoli successivi pubblicati sulle altre console.
Parlando, invece, degli artisti dietro a questa colonna sonora, all’epoca provenivano tutti dai ranghi di Konami. Questi erano: Maki Kirioka, Kazuki Muraoka, Hiroyuki Togo, Lee Jeon Myung e Takanari Ishiyama. Per quanto concerne la leggendaria The Best is Yet To Come, presente nei titoli di coda del gioco, questa venne composta da Rika Muranaka e realizzata da Aoife Ní Fhearraigh in lingua irlandese, sul tema di Tappi Iwase. Stiamo parlando, comunque di un videogioco che nei suoi limiti riesce a servirsi della propria colonna sonora aumentando il peso di alcuni momenti nella sua narrazione. Kojima, alla fine, riesce comunque a sfruttare le melodie a sua disposizione (melodie fatte anche di cori e strumenti specifici), incentrando la loro potenza sonora per accrescere l’importanza emotiva delle scene più importanti o toccanti. Nel 1998 venne anche pubblicato l’album ufficiale legato alla colonna sonora del gioco dal titolo “Metal Gear Solid Original Game Soundtrack”.
Un eroe leggendario da solo nella tormenta notturna
“Sono nata su un campo di battaglia e lì sono cresciuta. Proiettili, sirene e urla… sono stati la mia ninna nanna… cacciati come cani, giorno dopo giorno… messi in fuga dai nostri miseri ripari… Questa era la mia vita”. Dal punto di vista tecnico Metal Gear Solid si presenta come un classico videogioco stealth. L’obiettivo principale del giocatore è quello d’infiltrarsi all’interno della base nemica e per farlo non ha a disposizione nessun armamentario, almeno all’inizio del gioco. Si dovrà quindi cercare di superare le varie aree a comporre la base, aggirando i nemici sia attraverso alcune tecniche corpo a corpo, sia usufruendo delle armi sparse in giro. L’esplorazione diventa quindi, fin dai primissimi istanti di gameplay, centrale e d’impatto su quelle che saranno le attuali e future possibilità del giocatore.
Snake può utilizzare tutte le armi che trova, è un esperto e riesce facilmente a padroneggiarle tutte. La visuale isometrica e le varie angolazioni fisse, derivanti dai limiti tecnici dell’epoca, può essere alternata dalla soggettiva temporanea del protagonista e dalla possibilità d’inquadrare quello che accade dietro agli angoli in cui ci si nasconde. Muoversi nelle aree significa aggirare guardie e sistemi di difesa vari (telecamere di sicurezza, telecamere armate, laser, bombe opportunamente piazzate, trappole, trabocchetti vari). Il movimento silenzioso risulta quindi fondamentale anche se non obbligatorio. Un particolarissimo dinamismo del tutto soggettivo è alla base del gameplay di questo titolo. Il giocatore, infatti, può essenzialmente decidere di agire come meglio crede, generando tutta una serie di varianti ludiche anche affascinanti. Le guardie e il resto possono essere facilmente evitate attraverso l’ausilio del radar perennemente a schermo, oppure avvalendosi di una serie di strumenti (come la leggendaria scatola di cartone) a disposizione sia per le varie fughe che per i più disparati approcci.
Essendo l’IA dei nemici piuttosto basilare, Kojima ha impreziosito ogni posto con alcune piccolezze atte a rendere più difficile la semplice “avanzata in corsa”. Così sul nostro cammino sono facilmente riscontrabili pozzanghere e grate rumorose al nostro passo e sempre pronte ad allertare le orecchie della guardia più vicina. Tutto ciò impatta incredibilmente sia sull’immedesimazione nei confronti di ciò che accade a schermo, sia sulla sua credibilità.
Cuore pulsante e centro emotivo e narrativo di Metal Gear Solid è il Codec. Entrando nei panni di un infiltrato solitario all’interno di una base sorvegliata, come sistema principale di narrazione è stato dottato il cosiddetto Codec, un sistema di comunicazione radio che mette in contatto Snake con tutti i suoi alleati e con le persone che incontra lungo il suo cammino. Trattandosi di una missione estremamente delicata il supporto alleato risulta fondamentale, incentrandosi sulla presenza radiofonica nel gioco di alcuni personaggi esperti nei loro settori (armi, sopravvivenza…). Andando oltre la sua logica narrativa, il Codec è anche uno degli strumenti narrativi più profondi della storia. Attraverso di esso impariamo non soltanto a conoscere il nostro protagonista, ma anche i personaggi che lo seguono passo passo. La scrittura dei singoli dialoghi assume nell’immediato le fattezze di una vera e propria sceneggiatura studiata al dettaglio, attraverso la quale ci viene anche fornito un contesto per tutto quello che affrontiamo e facciamo. La scrittura di Metal Gear Solid prende radice partendo proprio da questo particolare strumento narrativo e di gameplay, snocciolando passo passo le sue tematiche adulte e riflessioni fondamentali, trascendendo le capacità comunicative del titolo a dismisura.
Sei tu, non i tuoi geni, a decidere del tuo destino.
Notte fonda in Alaska. Lungo i confini di una base indefinita e scalfita da una fitta e incessante neve, qualcuno attende nell’ombra. Tutto si muove nei silenzi di un buio che parrebbe portare ancor più freddo, e mentre i piani di una figura indefinita cominciano a delinearsi, qualcuno tenta di superare i limiti sorvegliati della base infiltrandosi dal basso, dall’acqua. Questi sono i primissimi istanti ad aprire Metal Gear Solid, istanti che oltre a introdurre un minimo cosa sta succedendo e cosa presumibilmente accadrà, presentano nel modo più cinematografico possibile un protagonista impresso a fuoco nella storia dei videogiochi.
Anno 2005, una delle squadre d’élite dell’esercito americano, la cosiddetta FOXHOUND, ha disertato appropriandosi dell’isola di Shadow Moses, isola utilizzata ufficialmente dall’America come impianto per lo smaltimento nucleare in base agli accordi START. Il loro piano è quello di attaccare lo stato suddetto con il Metal Gear Rex, un’arma mecha in grado di lanciare un attacco nucleare in qualsiasi condizione immaginabile, a meno che non gli siano consegnati i resti del leggendario combattente Big Boss e la modica cifra di un miliardo di dollari. Il tempo per assecondare tutte le loro richieste è di 24 ore. La risposta non ufficiale a questa gigantesca minaccia è Solid Snake. Il suo compito sarà quello d’infiltrarsi segretamente all’interno della base (supportato via radio dal colonnello Roy Campbell, dalla genetista Naomi Hunter, dall’esperto di sopravvivenza Master Miller, dall’esperta di armi Nastasha Romanenko e dall’analista Mei Ling). Le fasi del suo compito prevedono innanzitutto che entri in contatto con alcuni ostaggi chiave: Donald Anderson (capo della Darpa) e Kenneth Baker (direttore della ArmsTech).
Ben presto questa missione comincerà ad assumere caratteristiche sempre più curiose, in un viaggio in cui il nostro infiltrato entrerà in contatto non soltanto con i dettagli che gli sono stati spiegati nel corso della preparazione, ma con tutta una serie di dinamiche, anche personali, ad ampliare a dismisura la trama stessa. A capo della FOXHOUND troviamo Liquid Snake, un giovane che non condivide solamente il proprio nome in codice con il nostro protagonista. Il loro rapporto, qui agli albori, diverrà ben presto molto più complesso di quello che solitamente s’instaura fra villain e main character, mettendo in gioco alcune dinamiche e tematiche sì complesse ma perfettamente coerenti con il mondo di gioco rappresentato.
L’infiltrazione sarà quindi costellata di ostacoli rappresentati dai singoli boss ad ostacolarci lungo il cammino. Ognuno di essi è disegnato da caratteristiche specifiche e identificative anche dal punto di vista del gameplay, obbligando il giocatore stesso a ragionare, di scontro in scontro, sulle metodologie migliori e strategie di sconfitta più funzionali. La scelta di allineare gli scontri con la struttura del gioco stesso attraverso artifici specifici e originali di volta in volta, non risulta soltanto cinematografica ma anche estremamente originale ed avanguardista per l’epoca, delineando un viaggio al suo centro troviamo sempre il giocatore prima del protagonista stesso. Tutti ricordano, ad esempio, lo scontro con Psycho Mantis non per la sua difficoltà ma per il modo inquietante e geniale con cui rompe la quarta parete riferendosi direttamente al giocatore.
Revolver Ocelot, Vulcan Raven, Pshyco Mantis, Sniper Wolf, Decoy Octopus, sono tutti nemici che diventano iconici nell’immediato sia per la loro caratterizzazione estetica che per i loro dialoghi, per la loro storia e per tutto quello che hanno da dire al giocatore di volta in volta. La scrittura generale, infatti, oltre a dare un contesto fantapolitico funzionale agli eventi rappresentati, definisce ogni cosa seguendo uno stile e un tocco che restano unici. Ogni personaggio e ogni villain ha sempre qualcosa da dire in relazione a ciò che accade a schermo. Le singole motivazioni alla base delle azioni in gioco elevano di volta in volta quello che accade coinvolgendo in linea diretta. Anche in questo frangente Kojima non si limita a scrivere Metal Gear Solid, ma a sfruttare le interazioni strumentalizzandone le potenzialità al fine di costruire un’esperienza che va oltre quello che il cinema stesso potrebbe offrire. Il giocatore si ritrova quindi a fronteggiare situazioni complesse anche dal punto di vista umano, non soltanto strutturale, con interazioni narrative forti e adulte pregne di tematiche profonde ad impreziosire ogni istante in cui si tenta di avanzare nella storia.
Nel corso della storia di Metal Gear Solid (questa cosa si palesa ancora di più con il proseguire della saga stessa) Kojima non si limita semplicemente ad approfondire ogni suo personaggio, ma a riflettere nello specifico sul loro ruolo all’interno del campo di battaglia, e sul ruolo che un soldato assume quando la guerra stessa diventa la sua unica ragione di vita. La guerra, infatti, si ritrova al centro dei ragionamenti di questo director, il quale cerca sempre di plasmare i singoli punti di vista in modo tale da giocare continuamente sia con il protagonista che con il giocatore stesso. Non esistono semplicemente dei buoni o dei cattivi, esistono degli obiettivi, dei ruoli, delle ingiustizie (anche forti) e soprattutto delle storie. Ogni personaggio, anche il più negativo possibile, ha una sua storia alle spalle pronto a contestualizzarne, in qualche modo, le personali ragioni e scelte. Partendo da una scrittura del genere Metal Gear Solid riesce a mettere in campo, fin da questo suo primo capitolo tridimensionale, alcune tematiche che prima di allora sarebbero state difficilmente trattate all’interno del mondo dei videogiochi, ampliando non soltanto le possibilità del titolo ma quelle del medium stesso.
“Sono curda. Ho sempre sognato un posto pacifico come questo…”, dice Sniper Wolf con il suo ultimo filo di voce dopo che le abbiamo perforato un polmone con un fucile di precisione parlandoci del suo passato sul campo di battaglia, “Ogni mattina mi svegliavo… e scoprivo che qualcun altro della mia famiglia, o dei miei amici, era morto. Io alzavo lo sguardo al sole e pregavo, pregavo di restare viva per un altro giorno. I governi del mondo hanno chiuso gli occhi di fronte alla nostra tragedia. Poi… è arrivato lui. Il mio eroe… Saladino… che mi ha portato via da quell’orrore…”. Il modo in cui gli antagonisti principali si interfacciano con il giocatore è sia estremamente cinematografico che profondo e innovativo per il 1998, riuscendo a delineare qualcosa con un medium che aveva ancora tutto da giocarsi: “Sono diventata un cecchino… nascosta, osservavo tutto attraverso il mio mirino. Ora potevo vedere la guerra non da dentro, ma da fuori, da osservatrice… Guardavo la brutalità e la stupidità della razza umana dal mirino del mio fucile.”
Una scrittura del genere non impatta solamente sul futuro dei videogiochi e sulla storia, ma dimostra quanto un autore poteva e può realizzare seguendo la sua personale visione. Più volte Kojima ha rivelato di essere un amante del cinema, e questo suo amore ritorna perfettamente in tutta la saga e soprattutto in Metal Gear Solid, cercando d’implementare all’interno del titolo un’estetica formale fatta di movimenti di camera precisi, colonna sonora, montaggio e scrittura.
Le tanto discusse voci italiane
Parlare di Metal gear Solid equivale anche, almeno in terra nostrana, a parlare di quello che fu il suo tanto discusso doppiaggio. Sì, il gioco fu interamente doppiato in italiano con risultati estremamente altalenanti e poco apprezzati, anche se strettamente legati al ricordo del titolo. In America la direttrice del doppiaggio fu Kriss Zimmerman, con Harry Inaba come localizzatore. La versione inglese venne invece adattata da Jeremy Blaustein, mentre Olivier Deslandes si occupò del coordinamento del doppiaggio in Europa. Curiosamente, per quanto concerne l’Italia, Konami decise di indirizzare l’intero doppiaggio del titolo in Inghilterra, precisamente agli Abbey Road Studios. Qui vennero fatti i vari casting, scegliendo anche persone che per loro stessa ammissione in corso d’intervista: “Non avevano mai fatto corsi di recitazione, doppiaggio o dizione”. Questa particolare scelta ancora oggi desta qualche domanda e dubbio, partorendo l’unico doppiaggio italiano dell’intera saga ancora oggi amato e odiato.
Le problematiche generali con le nostre voci sono molteplici, dalla cadenza dialettica di alcuni sviluppi sonori, dal poco trasporto emotivo in alcuni frangenti, a una resa generale che lascia abbastanza a desiderare in generale. Bisogna comunque ricordare che, specialmente in Italia, all’epoca, non si prestava troppa attenzione verso il mondo dei videogiochi e verso quelle che erano le sue voci (basti pensare ad altri lavori dello stesso periodo come il doppiaggio di Spyro, ad esempio). Questa poca attenzione, sostituita del tutto con l’avanzare degli anni e della saga stessa, ancora oggi tormenta la memoria degli amanti di Metal Gear Solid, pur senza condannarne ogni singolo frammento sonoro.