Scrivere parole verso una serie TV che potrebbe presto venir cancellata come le sue sorelle di Netflix non è proprio incoraggiante, ma forse la leggerezza dovuta al non aver paura di rischiare o l’esperienza accumulata in questi anni sono proprio gli ingredienti fondamentali che rendono questa nuova stagione di Marvel’s The Punisher qualcosa di differente, capace di fare quel passo in avanti che forse alle serie TV Marvel – Netflix serviva.
Una storia d’origini
La trama riparte più o meno dove l’avevamo lasciata, con un Frank Castle sotto le spoglie di Peter Castiglione, pronto a vagare per l’America alla ricerca di uno scopo. Le cose sembrano mettersi bene, se non fosse che una scelta sbagliata – aiutare una giovane ragazza in pericolo – lo metterà in mezzo a una guerra lontana dalla classica mafia, ma immersa nella stessa atmosfera di quelle storie lette di Garth Ennis. Se da un lato quindi il sicario John Pilgrim – ispirato al Mennonita dei fumetti – tenterà di catturare la ragazza e Frank, dall’altra parte i demoni lasciati a New York (e condivisi con Dinah Madani e il suo amico Curtis) torneranno sotto forma di uno sfregiato e smemorato Billy Russo, sia esteriormente che psicologicamente fatto a pezzi come un mosaico (o jigsaw, nome che la sua controparte criminale prende nel fumetto).
Da qui partirà la tessitura di una trama che vedrà The Punisher in un fuoco incrociato, tra approfondimenti psicologici abbastanza coerenti e coesi e una presa definitiva di posizione su ciò che ognuno dei personaggi deve essere nella propria vita e nel proprio mondo.
Senza addentrarci oltre nella trama, che non brilla di originalità, ma che porta a termine il suo compito, questa seconda stagione sembra quasi più una seconda parte della precedente, con un Frank che si troverà costretto, suo malgrado, a tornare a fare ciò che fa bene, riprendendo dei problemi che aveva lasciato sospesi (o che forse non era riuscito a terminare) in precedenza. Proprio la presa di posizione, procedendo nella trama, sarà ciò che farà capire a Castle il suo “dono” nel saper togliere vite senza essere influenzato da sentimentalismi, pronto a fare la cosa giusta, nonostante sia sbagliata nel mezzo.
Stile caotico
Se parliamo di The Punisher, non possiamo soffermarci sulle coreografie: evitata stavolta la sottotrama legata al Frank slegato dalla violenza, l’azione parte in quarta fin dal primo episodio, con tre personaggi carismatici, caratterizzati e abbastanza violenti da rendere ogni puntata uno spargimento di sangue che definisce questa stagione come la più violenta delle serie TV Netflix Marvel.
Eppure il tutto non si ferma qui: oltre alla crescita psicologica dei personaggi, intenzionati a capire come definirsi nella vita, la serie riesce a fare dei parallelismi davvero interessanti con altre pellicole del passato. La più evidente – che però si mostra soltanto in principio – è quella con Léon (Jean Renò): una scena in particolare, quando Frank Castle e la ragazza camminano per la strada di notte, ricorda nel dettaglio quella (che potete trovare qui sotto) dove anche Léon e Mathilda si inoltrano sulla strada verso la telecamera. Naturalmente non si fermano alle similitudini visive i parallelismi, ma trovano sfondo anche in caratterizzazioni, tematiche e sviluppi di trama.
Presa considerazione di come questa seconda stagione omaggi i grandi miti del passato, un riferimento particolare viene fatto anche verso la brutalità vista in Punisher: War Zone. Ogni ferita e ogni dolore è talmente raffigurato bene a schermo da impressionare lo spettatore, in un tripudio di urla, sangue e violenza.
In termini di interpretazione, il cast da il meglio di sé: Jon Bernthal torna nei panni di Frank e ancora una volta da sfoggio delle sue doti di recitazione ponendo un forte accento sul lato bestiale del Punitore, Ben Barnes brilla per la sua interpretazione pazzoide di un personaggio frantumato in ogni parte del suo essere, mentre un fresco Josh Stewart funge da paragone-contrasto impersonando un redento killer invischiato in qualcosa di più grande di lui. Eccezionale anche il ritorno di Amber Rose Revah e Jason R. Moore, rispettivamente nei panni di Madani e Curtis. Non sono da meno Giorgia Whigham, la ragazza che darà lo start a tutti i problemi di Castle, e Floriana Lima, la psicologa di Russo.
Parlando un secondo dello sfregiato Billy Russo, la scelta di Netflix – parallela a quelle prese in tutte le serie Marvel – è stata di rendere le cicatrici di Jigsaw più mentali che fisiche. La faccia di Russo risulterà abbastanza deturpata da saltare all’occhio, ma di gran lunga più “sana” della controparte fumettistica, ammasso di pelle cucita male a mo’ di Mosaico.
It’s a women’s world
Nonostante i tre personaggi che se le daranno di santa ragione sono maschi categoricamente stile macho, con tanto di violenza, corazza psicologica e ogni cliché possibile che li caratterizzi, tutta la serie monta un sottotesto basato sulla costruzione e distruzione del maschio macho: Madani, la psicologa di Russo, la ragazza e persino il cameo di Karen Page sono gli elementi che sbloccheranno questa empasse data da un misto di paura del non volere accettare la verità e difesa verso tutto ciò che potrebbe ferirli. Proprio questo diventa un tassello importante della stagione, con una contestualizzazione dei personaggi tale da rendere davvero sfumate le linee che definiscono buoni e cattivi.
Purtroppo non tutto fila liscio: sembra infatti che nei tredici episodi, la serie proceda con una certa velocità nel risolvere i suoi brogli, per poi trovarsi verso le ultime puntate con una matassa troppo grande da gestire con la stessa velocità, subendo quindi una brusca accelerata che porterà a un epilogo che – sebbene potrebbe essere difficile da assimilare visto il breve tempo in cui si svolge – preparerà il vero arrivo del Punitore come lo conosciamo, e della sua crociata violenta contro i criminali di New York.