Imbrogliare fa parte della natura umana. Lo abbiamo fatto tutti, chi più chi meno, e qualche volta ci siamo sentiti in colpa non tanto per l’imbroglio in sé, ma per non essere stati scoperti e puniti. Sì, perché se non esiste la punizione non può esistere nemmeno l’imbroglio, e il trasgressore è importante esattamente quanto chi applica la legge o chi la fa rispettare. Senza i criminali non esisterebbero le forze dell’ordine, senza gli imbroglioni non esisterebbero gli arbitri, e senza la “natura umana” non esisterebbero le regole. Alla fine la nostra società si basa sulla possibilità di infrangere una regola e subire o non subire le conseguenze delle nostre scelte, giusto?

Detto questo ci sono volte in cui tifiamo per l’imbroglione, per il ribelle, per quello che spezza le regole o le aggira: gli heist movie, i prodotti d’intrattenimento di tipo crime, i libri di Edward Bunker e anche alcuni fantasy, si basano su questo. Con tali prodotti riusciamo a legarci ad una figura che abbiamo sempre visto come una deriva negativa e provare empatia per essa, fino a tifare la sua causa o la sua parte in gioco.

Uno dei pochi settori dove questa figura è perennemente posta sotto una luce negativa, però, è il videogioco online. Andando a scavare un po’ meglio ci sono alcune sottosezioni del gaming in cui i bucanieri del web sono visti anche peggio: i  First Person Shooter (FPS).

Un mondo a sé

Gli FPS esistono dagli albori del videogioco, sono stati una sorta di apertura verso il pubblico generalista, e in tante occasioni hanno dato un contributo nella sperimentazione di motori grafici, nella costruzione di trame rivoluzionarie, nel concepire nuove meccaniche e così via. Gli FPS in cui il giocatore stava da solo contro il gioco, denominati single player, si possono mettere senza remore nel calderone dei giochi safe, dove l’esperienza videoludica non prende connotati frustranti e complottistici. Tutt’altra cosa vale per i multiplayer.

Un tempo però non era così, se non sporadicamente, proprio per via della struttura a server chiusi degli FPS online: ci ricordiamo tutti la cerchia di persone con cui era facile trovarsi nello stesso server, come lo stesso posto e lo stesso bar degli 883, sotto una vigile guida di amministratori le cui facce e le voci erano familiari e il cui rigore aveva un qualcosa di marziale. Un nuovo arrivato perpetrava un comportamento tossico? Bannato. Qualcuno imbrogliava? Bannato. Qualcuno sfotteva troppo? Bannato. Vendita di account? Bannato. Era una piccola bolla in cui si stava tranquilli, perché giocare in quel server era come giocare in LAN con i tuoi amici.

Gli amministratori di questi piccoli server si prendevano in carica il benessere del giocatore e quello dell’ecosistema che li abitava, sostituendo in toto delle figure di riferimento assenti che, comunque, chi produceva quei titoli non avrebbe messo. Si parla sempre di far quadrare i conti e di chiudere il bilancio in attivo, mai del benessere di chi in quei giochi ci spenderà migliaia di ore della sua vita.

Il cheating, l’uso di programmi esterni per imbrogliare in un gioco online, c’era già all’epoca, è vero. Ciò che limitava gli imbroglioni però stava proprio nell’operato delle singole e laboriose comunità videoludiche, che armate di pazienza e furia omicida combattevano il fenomeno a forza di ban hammer e rendevano la loro vita un inferno.

Un mondo espanso

L’aumento dell’utenza e della popolarità di questi prodotti non poteva che portare ad un incremento delle vendite e del bacino di giocatori online, dunque ad una scelta ben conscia delle case videoludiche: qualità o quantità? Scegliamo di rendere la competizione leale o mettiamo insieme un sistema che ci faccia guadagnare? Ci affidiamo ad un controllo capillare e dispendioso, oppure optiamo per un controllo automatizzato e rapido?

Partendo dal presupposto che un’azienda videoludica è esattamente come qualsiasi altra azienda, possiamo intuire la scelta. Meccanismi come il matchmaking, i programmi anticheat e le segnalazioni che devono partire dall’utenza stessa, sono state delle decisioni ponderate in base al dispendio di risorse preventivato sul lungo termine. Se si fosse voluto seguire una strada “etica”, più utenza avrebbe significato più controlli, più controlli avrebbero aumentato le spese alla voce “stipendi”, più spese sarebbero state indicate con un drastico calo del fatturato e quindi meno dividendi a fine anno per gli azionisti. Capiamo bene il perché della scelta opposta, no?

La qualità, come in qualsiasi settore, si paga. La soluzione logica per ogni azienda non può che essere il simulare la qualità che i giocatori richiedono per avere un’esperienza di gioco felice, cercando di spendere il meno possibile facendo tacere la maggior parte delle lamentele. Il problema è che questa soluzione non funziona quasi mai, ed ecco, come per magia, la creazione di un ambiente amichevole all’imbroglio.

Perché imbrogliare?

Per rispondere a questa domanda bisogna partire dall’assunto che la fama facile fa gola a chiunque. I maggiori titoli in cui il cheating negli FPS ha reso veri introiti sono: Call of Duty saga, Apex Legends, Fortnite, Battlefield e Overwatch.

Ricordiamo tutti casi molteplici dove pro gamers, magari a causa di un errore di valutazione, venivano scoperti con le mani nella marmellata in una live streaming. E ricordiamo pure che nel momento in cui questi scandali hanno fatto alzare un polverone, non c’è stata una sola risposta da parte delle case di sviluppo dei giochi dove questo genere di inganni venivano perpetrati, se non un blando “stiamo aggiornando l’anti cheat“.

Addentrandoci un po’ in questo mondo possiamo scoprire che non si tratta mai solo di persone con la fissa di essere riconosciuti per ciò che non sono e che non saranno, non si tratta di gamers che cercano in tutti i modi di vivere con i videogiochi e con le donazioni su questa o quella piattaforma, e non stiamo parlando solo di ragazzi con una fanbase più o meno nutrita su Twitch. C’è di mezzo un enorme sottobosco di gente che lavora in ambiti corollari al gaming e allo sviluppo, ben organizzata e in grado di controllare un mercato secondario senza troppe difficoltà.

All’interno di ogni comunità online, principalmente quelle che riguardano un titolo videoludico di massima diffusione, si formeranno sempre dei commerci illegittimi che nessuna piattaforma, nessun marchio e nessuna casa produttrice autorizzerebbe mai. Autorizzare questo tipo di commerci non può che causare problemi, perché si creerebbe un mercato multi stratificato di account, oggetti di gioco, ranking e così via.

Un mercato interno con questo tipo di struttura porterebbe le autorità a fare indagini, la possibilità di compiere crimini informatici (estorsioni, furti, hacking e così via), e un numero via via maggiore di lamentele sempre più imperanti. Quindi com’è che accade comunque? Semplice: le aziende non approvano, anzi condannano fermamente, però non prendono e non prenderanno mai provvedimenti seri a riguardo, ma sempre e solo palliativi.

Segui i soldi

Un fatto giustamente condannato da ogni compagnia  ma quasi tollerato, a patto che si prendano determinate precauzioni, è quello della compravendita di account, cosa che ha alle sue spalle un giro spropositato di soldi. Queste operazioni avvengono a  opera di micro realtà basate completamente sull’utilizzo di cheat e automatismi in grado di rendere questo tipo di commercio più agevole a coloro che lo attuano.

Non ci soffermeremo su come funziona o come possono essere acquistati tali account, ma sappiate che un account di livello alto, con già le ricompense sbloccate e con un rank decente, può valere fino a 60 Euro sul mercato illegale. Invece gli account che sono arrivati ad un rank molto alto nelle partite classificate, possono valere anche tre volte tanto. Se contiamo poi che non sono singoli utenti a svolgere questo genere di attività, ma gruppi ben organizzati che si coordinano tra loro spartendosi i proventi, possiamo anche immaginare la mole di soldi che gira in questo genere di attività.

Perché gli anti cheat non funzionano?

Gli anti cheat non funzionano, o meglio, non funzionano davvero, perché il gioco delle parti prevede che per ogni dipendente assunto dall’azienda nel tentativo di arginare il fenomeno cheater, ci sono almeno dieci freelance che lavorano per trovare i buchi nel suddetto sistema. Ogni azienda che sviluppa videogiochi deve fare i conti con il proprio bilancio, con il tornaconto dei vertici e trovare un modo per non perdere più soldi di quanto guadagna. Per questo esistono le micro transazioni, i season pass, gli eventi speciali e i DLC. Per lo stesso motivo è più fruttuoso spendere delle somme risicate nell’arginare marginalmente un fenomeno difficile da fermare e delle somme ingenti in qualcosa che può portare realmente del guadagno.

Un altro grande motivo per cui è difficile che un anti cheat possa funzionare sono i falsi positivi, ovvero i giocatori che vengono accusati di aver barato, con qualche strumento esterno, da innocenti. Questa sciagurata situazione avviene proprio perché è complesso distinguere chi imbroglia con un software dedicato e invisibile, da un giocatore astuto in grado di ingannare e prendere alla sprovvista l’avversario in maniera lecita. Gli elementi di gioco e la maniera in cui la balistica si è fatta sempre più complessa, porta i giocatori ad usare sempre più escamotage e inganni così realistici da trovare riscontro anche in uno scenario bellico reale. I cheat professionali, quelli pagati con un abbonamento premium ad esempio, sfruttano le medesime condizioni fondendosi con le reazioni naturali che qualsiasi giocatore esperto avrebbe.

Ecco un esempio: un giocatore senza programmi atti al cheating sente un rumore alle sue spalle, si volta con uno scatto e spara verso la direzione del rumore. Un giocatore con i programmi atti al cheating ha attivato un programma che sente un rumore alle sue spalle, si volta in automatico con uno scatto e spara verso la direzione del rumore. Nel primo caso non è detto che il giocatore riesca a colpire l’avversario, nel secondo caso colpirà l’avversario magari in un punto stabilito dal codice del software usato per imbrogliare. Stesso risultato, stessa reazione, conclusione differente in termini probabilistici.

Se un programma anti cheat è tarato per segnalare e bannare tutti i giocatori che riescono a voltarsi e uccidere l’avversario, magari un avversario nascosto parzialmente e difficile da colpire, allora si avranno un gran numero di falsi positivi. Questo perché, statisticamente, ci saranno sempre giocatori in grado di effettuare quella manovra così difficile proprio grazie alle ore di allenamento, al talento e alle prestazioni della connessione e del proprio PC.

Dunque come regolarsi? Per evitare casi come questi, i reparti che si occupano di tarare i programmi anti cheat, “abbassano” il raggio in cui il programma di sorveglianza agisce che, stando sempre nel medesimo esempio, ora non punirà più chi effettua quel tipo di azione ma colpirà chi effettua magari un’uccisione da 300 metri, dietro un muro e senza vedere l’avversario. Questo porterà i cheater a farla franca proprio grazie all’espediente del falso positivo.

Ma chi compra questi account?

Non esiste un vero dato di vendita o un censimento che ci faccia capire quali sono le percentuali di utenti che decidono di comprare degli account del genere. Se uno storico delle partite giocate dovesse raccontare un utilizzo massiccio di mira assistita o wall hacking, questi stessi account potrebbero venire segnalati in futuro, dunque si tratterebbe di un azzardo comprarli. Tanto vale utilizzare i cheat per rendere il proprio account di gioco performante, senza stare a spendere cifre esose per giocare fin da subito ad un rank altissimo in cui, per ovvie ragioni, non si ha alcuna possibilità di affrontare avversari così allenati ed esperti.

Si tratta di un vero e proprio serpente che si morde la coda, in cui giocatori inesperti comprano degli account di gioco per giocare fin da subito a livelli a cui non arriverebbero (se non dopo centinaia di ore di allenamento) e per vincere si sentono costretti a imbrogliare con software esterni.

Il sito time2play, prendendo un campione di 1000 giocatori italiani, ha riscontrato una statistica che porta i numeri in questione a livelli altissimi: il 70% trova accettabile barare nei giochi, e i giocatori su PC sono quelli considerati più inclini all’imbroglio. Al secondo posto dei giochi in cui si imbroglia di più c’è Call of Duty: Black Ops, al quarto Fortnite, al settimo Apex Legends e all’undicesimo Battlefield V.

Alla domanda sul perché farlo, un preoccupante 42% ha risposto che così facendo è più facile sbloccare risorse di gioco che altrimenti si dovrebbero pagare, mentre un 4,5% prende spunto dagli streamers che barano nei competitivi per mostrare una bravura millantata solo a parole (e aumentare il proprio pubblico che, in percentuale risicata, cerca pure una guida per imparare al meglio il gioco).

Gli scandali

Ogni scandalo scoppiato nell’ambito del gaming professionistico ha sempre la stessa componente, lo stesso pattern che si ripete e probabilmente si ripeterà all’infinito: l’aspettativa.

Il settore degli FPS multiplayer non è esente da questo meccanismo e, in gran parte del mondo, non è regolamentato come un settore sportivo a tutti gli effetti. Gli stessi stipendi non hanno un vero e proprio manuale guida, affidandosi per gran parte ai fondi di questa o quella società. Di conseguenza un team facente parte di una scuderia minore potrebbe trovarsi a dover macinare decine di ore di allenamento al giorno senza essere retribuito adeguatamente. Gli atleti, dunque, dovranno performare con ogni mezzo possibile per poter uscire dai circuiti più piccoli e faranno inevitabilmente carte false per raggiungere l’olimpo del settore eSport. Qui vengono in aiuto i software esterni atti a facilitare il compito a questi atleti e magari riuscire, mettendo per un po’ da parte l’etica, a guadagnarsi da vivere in tal modo. Com’è possibile che una squadra non si accorga di queste magagne?

Ecco, questa è una domanda piuttosto comune negli ambiti sportivi e in genere si risolve tenendo conto della connivenza dei vertici, dei preparatori atletici e dei compagni di squadra. L’uso di un cheat negli eSport è paragonabile al doping in una gara di atletica, eppure quando un atleta viene scoperto con le mani nella marmellata, la punizione, la conseguente squalifica e la lettera scarlatta sul petto, colpiscono solo ed esclusivamente la sua persona.

Sarebbe inutile stare ad elencare tutti gli streamers famosi, tutti i giocatori di questa o quella scuderia, trovati a barare su un determinato FPS multiplayer, perché si tratterebbe di guardare il fenomeno in un’ottica limitata che punisce il singolo e non un sistema creato di proposito per guadagnare frodando. Inoltre la mortificazione di chi ha ceduto ad un gioco sporco per sopravvivere all’interno dell’ambiente, prevede di metterci tutti su un piedistallo. Ponderare anche solo per un momento che tutti noi non avremmo mai accettato l’aiutino, usato l’asso nella manica, seguito la via più facile, non serve a nulla, perché noi in quella situazione non ci siamo mai stati e non ci saremo mai. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, no?

In conclusione

Il gaming online, competitivo e non, ha bisogno di una regolamentazione più decisa e di una maggiore tutela per gli utenti, per gli atleti eSport e per coloro che non fanno parte del sottobosco di compravendite illecite che impesta questo mondo. Ha bisogno di più persone che provino a fermare tutto questo, e cambiare le cose, che usino il proprio operato per denunciare pubblicamente queste organizzazioni e le case videoludiche conniventi. Ha bisogno di una svecchiata dalla tossicità di comunità principalmente maschili e aggressive verso chiunque non raggiunga un certo standard. Ha bisogno di concludere il processo in cui si pone l’asticella così in alto da portare i giocatori normali, quelli della domenica, a sentirsi in difetto per quella morte di troppo o quella kill mancata.

Il gaming, in particolare il settore degli FPS, ha bisogno di giocatori che smettano di voler competere a tutti i costi per scalare una classifica e comincino a cercare di divertirsi. Perché questa è la chiave: nessuno si diverte barando e nessuno bara se si diverte.

Alessandro Caredda
Accanito giocatore di Magic: The Gatering, ha sempre coltivato la sua passione per i videogiochi, per le graphic novels, manga e gadget di ogni tipo. Ama l'horror, tanto da basare la sua carriera da scrittore su quel genere, e spendere per oggetti da collezionismo. Si ritiene piuttosto certo che queste sue passioni lo condurranno sul lastrico.

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