C’è qualcosa di profondamente affascinante nell’idea di animali coraggiosi che, non più in pace tra loro, si uniscono per fronteggiare una minaccia meccanica che distrugge il loro habitat. È questo il cuore narrativo di Defenders of the Wild e, in buona parte, è anche il collante che tiene insieme un design che rischia altrimenti di essere troppo “ambizioso” per il comune giocatore da tavolo.
La prima cosa che colpisce è l’identità visiva. Le illustrazioni (opera di Meg Lemieur e T.L. Simons) non sono semplicemente “belle carte”: sono strumenti tematici che comunicano tono, tragedia, speranza. Ogni carta, ogni simbolo, ogni colore trasmette “questa è una lotta per la foresta”. È una forza che conferisce al gioco una gravità emotiva che molti cooperativi (anche ottimi) faticano a raggiungere. Ma l’arte da sola non basta. È appena lo specchio esterno di un motore interno che vuole essere robusto, tattico e senza mezzi termini sfidante. In questa recensione andremo ad esplorare i punti di forza interessanti e inevitabilmente le zone d’ombra che vale la pena raccontare.
Meccaniche e struttura: dentro la lotta
Il cuore di Defenders of the Wild è un sistema cooperativo che intreccia gestione della mano, controllo dell’area e azioni programmate, costruendo un ciclo di gioco teso e denso di decisioni. Ogni giocatore guida una fazione di animali – la Foresta, le Praterie, le Montagne o le Paludi – e all’inizio di ogni round sceglie segretamente quale “difensore” giocare dal proprio mazzo. La carta selezionata determina non solo quante azioni potrà compiere, ma anche il tipo di abilità speciale che potrà attivare, dando vita a combinazioni che oscillano tra pianificazione strategica e improvvisazione tattica.
Il turno si articola in una sequenza serrata: dopo la rivelazione simultanea dei difensori, i giocatori eseguono le loro azioni muovendosi sulla mappa modulare, attaccando i mech invasori, ripulendo aree inquinate o costruendo campi per recuperare risorse. Ogni azione ha un peso, perché il tempo e le possibilità sono limitate: il giocatore deve scegliere tra intervenire per contenere la minaccia o dedicarsi alla ricostruzione della natura. Nel frattempo, la macchina del male continua a girare: dopo ogni turno, una carta Mech entra in gioco, introducendo nuove fabbriche, inquinamento, e unità meccaniche che invadono territori ancora intatti. Questo mazzo di eventi non è infinito: si compone di un set ristretto di carte che tornano ciclicamente, permettendo di apprendere i pattern ma mai di dominarli del tutto, mantenendo alta la tensione.
Una delle trovate più particolari è la meccanica del “silenzio”: in certe fasi non è consentito comunicare con gli altri giocatori, così che ognuno debba scegliere in autonomia la propria carta senza influenze esterne. Questa scelta di design, pensata per evitare il classico “giocatore alfa” tipico dei cooperativi, divide le opinioni. Alcuni la trovano brillante, perché costringe ogni partecipante ad assumersi la responsabilità delle proprie decisioni; altri la giudicano frustrante, perché impedisce di discutere strategie proprio quando la squadra dovrebbe collaborare.
L’equilibrio fra controllo e caos è il filo conduttore del gameplay. Le azioni si esauriscono in fretta, e la pressione cresce turno dopo turno, mentre le macchine avanzano e le fabbriche proliferano. Il sistema di “rewilding”, cioè il ripristino delle aree industriali alla loro forma naturale, è la chiave per la vittoria: solo riqualificando l’intera mappa la foresta potrà sopravvivere. Ma la morte di due difensori dello stesso habitat o il dilagare dell’inquinamento decretano la sconfitta, rendendo ogni errore potenzialmente fatale. Ne risulta un gioco intenso, asimmetrico e strategicamente impegnativo, dove la cooperazione non è un optional ma una necessità. Le prime partite possono risultare ostiche, con un regolamento corposo e un linguaggio tecnico che richiede pazienza, ma la ricompensa arriva presto: ogni sessione diventa una piccola epopea di resistenza, piena di rischi, sacrifici e trionfi inaspettati.
Esperienza reale: tensione, errori e soddisfazioni
Chi ha provato Defenders of the Wild lo descrive spesso come un “co-op con spina”. Le prime partite sono dense di consultazioni: “Chi va lì? Chi pulisce? Chi assorbe i danni?” e spesso il gruppo perde per decisioni sub-ottimali più che per forza bruta del nemico. L’immersione è potente. Quando l’inquinamento avanza, le mech costruiscono fabbriche, e tu sei costretto a scegliere chi salvare, la tensione cresce. In molte recensioni si cita la sensazione di essere “nell’occhio della tempesta”. Anche nelle partite perdenti, seguire il progresso della mappa, vedere il deteriorarsi del bosco, avere una fabbrica quasi ripulita tutto contribuisce a momenti memorabili.
Ma il gioco è anche spietato. Alcuni recensori indicano che una cattiva carta mech o una serie sfortunata di tiri può demolire il tuo piano, e che in quei casi la sensazione può essere di “essere puniti senza scelta”. Molti suggeriscono l’uso di “house rules” per attenuare la casualità, specialmente nei primi match. La modalità in solitario è supportata, ma non è semplicissima: alcune fonti dicono che è meglio giocarla “due mani” piuttosto che usare le regole solitarie ufficiali, dato che queste aggiungono molti casi speciali che complicano l’esperienza più che migliorarla.
Forza e limiti
La potenza di Defenders of the Wild sta nella sua coerenza. Tutto, dalle illustrazioni alla struttura delle azioni, parla di cooperazione, di sacrificio e di lotta contro l’inevitabile. È un titolo che vuole farti sentire la pressione e la speranza, che trasforma ogni scelta in una dichiarazione politica e ludica. Tuttavia, questa stessa intensità si traduce in un’esperienza che non è per tutti: il ritmo lento, le regole complesse e l’alea non bilanciata possono allontanare chi cerca una sfida più leggera. I punti di forza più evidenti restano l’integrazione totale tra tema e meccaniche, la profondità strategica e la capacità di stimolare il dialogo e la cooperazione autentica. A questi si aggiungono la varietà delle fazioni e la possibilità di sperimentare combinazioni sempre diverse, la qualità dei materiali di produzione solidi, ben illustrati e con una direzione artistica impeccabile e una longevità che cresce col gruppo, premiando la continuità di gioco.
Le debolezze, tuttavia, non sono trascurabili. Il regolamento, denso e a tratti ambiguo, frena le prime sessioni. La casualità, specie nelle fasi di combattimento e nella gestione dei mech, può frustrare i giocatori più tattici. Inoltre, l’obbligo del silenzio in alcune fasi e il bilanciamento imperfetto tra le fazioni riducono la fluidità dell’esperienza. A ciò si somma una curva di difficoltà ripida e una prevedibilità crescente dopo diverse partite, che può intaccare la sensazione di scoperta.
Defenders of the Wild non è un gioco da prendere alla leggera. Non è un cooperativo da aprire e giocare subito: è un titolo che ti premia solo se accetti di investire più partite, leggere e rileggere il regolamento, sperimentare strategie e magari adottare house rules per mitigare la sfortuna. Ma chi lo fa, riceverà in cambio momenti significativi: una partita che sembra persa e invece si riapre, una rewild finale salvata all’ultimo turno, una mappa che cambia colore, la distruzione silenziosa di una fabbrica meccanica.


