Partire per l’avventura può essere un’esperienza diversa per ogni persona: parliamo ovviamente in ambito videoludico quando diciamo che, nel corso del tempo, abbiamo avuto modo di scoprire tantissime variazioni sul tema del “gruppo di avventurieri”. Se c’è però qualcosa che conquista sempre, e con molto vigore, è il concetto di salute mentale: perché combattere orde di nemici – spesso sovrannaturali – e trovarsi sempre ad un passo dalla morte deve pur avere qualche conseguenza sulla mente di una persona. Darkest Dungeon II, così come il primo capitolo, gira proprio attorno a questo concetto: quanto può resistere la mente alle atrocità della guerra?
Vignette in movimento
Partiamo subito da ciò che caratterizza molto il gioco di Darkest Dungeon II, ovvero l’art design: parliamo di uno stile vicino al mondo del fumetto, delle avventure d’animazione ma con un evidente segno distintivo dark. Nel gioco potremo vedere personaggi e creature caratterizzate da questo alone d’oscurità, capace di conferire un tocco stilistico originale e riconoscibile ad ogni dettaglio.
Nonostante questo, il gioco ovviamente basa il suo scheletro sulle classi che già conosciamo da tempo, tra Dungeons & Dragons e altri giochi simili: ecco allora che avremo il rogue con i suoi danni, il bardo (qui chiamato Intermezzo) capace di infondere ispirazione agli altri personaggi, e anche il chierico (qui si chiama Seraph) che può utilizzare magia divina per combattere. Nel corso dell’avventura potrete anche aumentare il vostro party, cambiare le dinamiche e sfruttare il campo per vincere le battaglie.
Il loop del gioco è abbastanza semplice: il vostro compito sarà quello di portare a destinazione un carro, scegliendo di volta in volta la strada da percorrere, gestendo gli incontri spiacevoli che farete e cercando di evitare danni al mezzo. A differenza del precedente gioco, stavolta non avrete un hub dove tornare, ma userete proprio il carro come base mobile, dinamica che cambia un po’ la velocità del gioco proponendo una scorrevolezza maggiore.
La notte più profonda
Darkest Dungeon II, come ci dice il nome stesso e come già ci raccontò il precedente capitolo, basa tutto sull’oscurità più profonda: parliamo a tutti gli effetti di nemici e creature mostruose vicine all’immaginario horror fantasy e lovecraftiano, ma con altri spunti interessanti ispirati da altre opere di genere.
Sarà importante il modo in cui affronterete le sfide che vi si porranno davanti: la scelta dei personaggi, gli oggetti usati, lo schema di combattimento e le posizioni saranno variabili, tutte cose che dovrete gestire per far sopravvivere i vostri eroi.
Il gioco si basa molto sulle statistiche – essendo comunque di stampo RPG – e quindi potenziamenti e debilitazioni saranno importanti da gestire per evitare morti inaspettate. Il gioco inoltre, avanzerà proprio a causa delle problematiche: i personaggi infatti risentiranno, nel corso dell’avventura, degli infiniti combattimenti, e questo graverà sulla loro sanità mentale, un carico capace di infondere paure e terrori.
Come ogni gioco che si rispetti, basato minimamente sullo stile di Lovecraft, la follia diventa allora non un malus capace di rompere l’esperienza, bensì un vero e proprio twist che garantirà un cambiamento dell’avventura sempre interessante.
Altrettanto ben fatta è la gestione dei rapporti tra i personaggi, anch’essa influenzata da queste paure e tassello fondamentale che porterà a farvi analizzare la composizione del migliore team da portare avanti. Darkest Dungeon II è un roguelike, e come tale ha delle meccaniche legate al dover ricominciare la partita una volta finita.
Il male non muore mai
I giochi di ruolo rischiano sempre di cadere in un tranello, quello del voler espandere: all’RPG spesso si associa l’idea di libertà totale, vuoi per la storia del genere videoludico, vuoi per tutto ciò che gira attorno a questo nome. Una delle meccaniche che entra in contrasto con la sottocategoria dei roguelike è proprio la narrativa.
In un RPG classico arriviamo spesso ad avvicinarci empaticamente – un po’ come succede anche negli action – ai personaggi che utilizziamo: nessuno di noi può dimenticare le emozioni ricevute da un Final Fantasy o un Dragon Quest, decisamente diverse da quelle che possono dare invece un Crash Bandicoot o un Gran Turismo. Il problema dei roguelike però, specialmente quando il team diventa sacrificabile, è proprio l’attaccamento a tali personaggi.
Dead Cells e Returnal hanno dalla loro il fatto che il personaggio ritorni di volta in volta, cosa che non succede in Darkest Dungeon II, dove questi poveri avventurieri sono nient’altro che carne da macello. Eppure il gioco, complice l’evoluzione del team e le dinamiche interne, fa avvicinare il giocatore a tali personaggi, rendendo un po’ più amaro il dover ricominciare ogni volta.
La cosa sembra essere voluta, e quindi potrebbe essere una dinamica apprezzata molto dai giocatori, ma sul lungo periodo potrebbe portarli a doversi staccare dal titolo dopo un po’ di ore di gioco.