Tina (Eva Melender) è un’impiegata alla dogana affetta da una malformazione genetica che le dà un aspetto simil-Neanderthal. Grazie al suo olfatto prodigioso la donna riesce a fiutare materiali di contrabbando e a smascherare criminali percependone il senso di colpa, la paura e la vergogna. Queste capacità la rendono una risorsa preziosa per i suoi colleghi e un segugio infallibile, fino al giorno in cui alla dogana si presenta il misterioso Vore (Eero Milonoff), uomo sofferente della sua stessa deformazione genetica, che sfugge per la prima volta al suo fiuto super-umano e che suscita in lei un’attrazione fuori controllo. In poco tempo tra i due scoppia un amore folle e Vore le svela la sua vera identità. Come lui, Tina non è un’umana, ma qualcosa di molto più speciale e tutta la sua vita non è stata che una menzogna. Ma si può fidare veramente di Vore? Nella cornice di un orrendo crimine, Tina dovrà decidere se continuare a vivere una bugia o accettare la sconvolgente verità su se stessa e sulla sua natura.
Candidato all’Oscar per il Miglior Trucco (dove ha perso contro un film ad alto budget come Vice – Vivere nell’ombra di Adam McKay), Border – Creature di Confine (in svedese Gräns) è stato presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard, dove ha spiazzato pubblico e critica e ha meritatamente ottenuto il premio al miglior film nella stessa competizione. Tratto da un racconto di John Ajvide Lindqvist (lo “Stephen King” scandinavo autore di Lasciami Entrare, storia di vampiri già film di culto diretto da Tomas Alfredson) il film è una commistione di genere incredibilmente efficace: un po’ favola nera dei Fratelli Grimm, un po’ film esistenzialista di Lars Von Trier, un po’ noir alla Camilla Lackberg, Border – Creature di Confine fa uso di tutti gli elementi del cinema di genere creando un mosaico difficilmente imitabile.
Il regista Ali Abbasi (regista iraniano naturalizzato svedese), che si è già fatto notare con il film d’esordio Shelley (2016), una versione tutta europea e ibrida di Rosemary’s Baby – Nastro Rosso a New York (1968) di Roman Polanski, gioca ancora una volta con gli strumenti narrativi, creando un noir dai toni fantasy e fiabeschi che funziona anche come considerazione sulla natura e sull’etica umana in maniera non dissimile dai migliori lavori dell’ormai popolarissimo regista messicano Guillermo Del Toro.
Una premessa che sulla carta sembrava improponibile e delirante diventa un film già di culto, la cui lunghezza a tratti provante e il ritmo lento permettono di assaporare tutte le componenti di genere di un film originalissimo superbamente recitato dai due protagonisti, nascosti dietro pesanti ed eccellenti maschere, punto di arrivo tra modernità e folklore .