Lo aspettavamo al varco, Guillermo Del Toro. Appassionato e divertito come al solito, fresco di statuetta d’oro e, magari, pronto a conquistare le platee dell’era neo-pandemica con l’attesissimo La Fiera delle Illusioni: Nightmare Alley, di cui parliamo in questa recensione. Così non è stato, almeno in territorio statunitense. Un flop, ma un flop annunciatissimo, quasi adeguato a un progetto che con i gusti dell’audience odierna ha poco o nulla da spartire. Giunto sui nostri schermi dopo più di un mese dall’insuccesso americano, Nightmare Alley (La Fiera Delle Illusioni qui da noi) si conferma come un nuovo, affascinante tassello nel percorso di riappropriazione della materia filmica hollywoodiana che Del Toro aveva cominciato con La forma dell’acqua, il tentativo di rileggerne gli stilemi secondo la logica fantasmagorica e mostruosa che ha caratterizzato il cinema del regista messicano sin dai suoi esordi.
Del Toro cinefilo
Il riferimento filmologico, per una volta, è esplicito e curioso, distante nella sua linearità non-fantastica da ciò a cui l’autore de Il Labirinto Del Fauno ci ha abituato. Ma nel ridare vita al romanzo di William Lindsay Gresham – da cui Edmund Goulding aveva tratto nel 1947 il bel film noir con Tyrone Power -Del Toro guarda oltre il rifacimento sterile. E infatti, al di là dello scarto narrativo apparente, anche Nightmare Alley si rivela essere un monster movie.
Solo che le creature, invece di farsi materia filmica grazie agli innesti di trucco e parrucco come accade sempre in Del Toro, indossano qui il costume da uomini: protagonisti ingordi, imbestialiti dalle loro brame spasmodiche, esseri umani che si contorcono su loro stessi fino a farsi belve ingabbiate. Sta tutto nel corpo e nella testa di Stan (Bradley Cooper), il tragico antieroe del racconto che, dopo aver imparato l’arte dell’inganno da un collega circense, decide di dedicare la propria esistenza alla manipolazione illusoria del pubblico insieme alla bella Molley (Rooney Mara).
Il mostro classicamente inteso resta un oggetto da ammirare affascinati, rinchiuso in un vaso di formaldeide – come l’informe feto custodito dal proprietario della fiera (William Defoe) dove Stanley incappa all’inizio del film: è l’orrore deformante che si emancipa dalla propria figura corporea e inonda la mente dei protagonisti di Del Toro, che a ben vedere dai piani degli uomini mostruosamente malvagi ci ha sempre messo in guardia. Al di là del revisionismo cinefilo di cui il regista messicano si fa qui estremo sacerdote, questa Fiera delle illusioni non è che l’ennesima istanza, quella più morbosamente classicheggiante, della sua aliena e mostruosa cosmologia fantastica.
Rivisitazione hollywoodiana
La sorpresa circa lo spunto di partenza, così apparentemente lontano dal canone di Del Toro, lascia spazio ben presto al fascino del citazionismo più sofisticato. È anzi curioso come, a distanza di poche settimane dall’uscita del West Side Story di Spielberg, La Fiera delle Illusioni reiteri la propensione del cinema americano recente a raccontarsi attraverso il proprio passato.
Due reinvenzioni della Hollywood classica, due mega tonfi al box-office statunitense: come a dire che nell’era della pandemia per questi sgarri d’auteur non c’è più spazio fra i piani alti del botteghino. Restano interessanti, però, come espressione di una necessità di rivalutare il proprio legame con il cinema fondatore, di testarlo, vivisezionarlo, porlo al banco di prova della sensibilità cinematografica e culturale di oggi.
La Fiera delle Illusioni, come l’ultimo, grandioso film di Spielberg, è un film in cui Del Toro parla di se stesso, del suo modo di fare cinema, dello zenith e del nadir della sua passione per il mezzo filmico. Cinema come gioco illusorio di verità e bugia, un labirinto di specchi fra i cui riflessi anche il più furbo degli incantatori rischia di restare ammaliato e imprigionato. Del Toro, però, non ha il dono della sintesi nazionalpopolare di Spielberg: il suo linguaggio filmico si fa qui più autoreferenziale che mai, rivolto a sé stesso e al proprio pubblico di fedeli cinefili prima che a quello generalista dei multiplex.
Una visione allargata
Nel clima ultra-patinato di questo Nightmare Alley l’autore messicano si adagia comodamente, reimmaginando l’eleganza del noir con deliziosa e compiaciuta tetraggine. Allaga il melodramma di Goulding per farne una creatura modellata a proprio piacimento, tragica come l’uomo-pesce de La forma dell’acqua ma anche più espansa, notturna e seriosa. Lo si vede soprattutto nelle movenze del cast, che Del Toro osserva con sguardo mellifluo (fotografia dell’habitué Dan Laustsen) come fossero un gruppo di oscure marionette, maschere teatrali con il proprio ruolo drammatico dipinto sul volto – dall’imbambolato e antipatico Stan di Cooper alla mefistofelica psicologa di Cate Blanchett.
È una rilettura singolare e auto-indulgente, all’interno della quale i tempi si allungano, il freak show si ingigantisce e diventa spettacolo pachidermico, esasperato ed esasperante: un meccanismo narrativo che inghiotte gli snodi drammaturgici e li restituisce in forma di giocattolone mastodontico e disomogeneo, ora emozionate ora verboso.
Resta se non altro il piacere di uno spettacolo di magie condotto da un incantatore così coinvolto e sicuro come Del Toro. Al regista messicano si possono lamentare testardaggine e poca misura, ma certo non la mancanza di un’enfatica passione per la propria visione filmica. E in fin dei conti Nightmare Alley, che riconferma la tendenza celebrativa dell’incompreso Crimson Peak, va vissuto così: come un godurioso esercizio passionale, un divertissement che aspira a conquistare la nostra curiosità ma si limita a stuzzicarla. Una magic box fascinosa, colta e cinefila che si schiude solo a chi asseconda i suoi compiaciuti ingranaggi.