West Side Story – Recensione del musical di Steven Spielberg

Una rivisitazione strabiliante che è anche una riflessione sul cinema classico: ecco la recensione di West Side Story di Steven Spielberg

Giacomo Placucci
Di Giacomo Placucci - Contributor Recensioni Lettura da 9 minuti
8.5
West Side Story

L’occhio di Steven Spielberg sulle macerie dell’Upper West Side di fine anni Cinquanta ci accoglie sotto forma di una lunga e vertiginosa carrellata, tra i momenti filmici più strabilianti dell’anno. Una portentosa dichiarazione d’intenti dell’autore americano, che in West Side Story, rifacimento del capolavoro di Robert Wise e Jerome Robbins del 1961, si permette il lusso di risvegliare i fantasmi della vecchia Hollywood in rovina per portarli a ballare sulle strade di New York. È il regalo più bello di quest’annata cinematografica in cui di musical se ne sono visti parecchi (In The Heights; Tick, Tick… Boom!), ma anche la meditazione nostalgica di un autore che con questo stileclassico ha avuto un lungo rapporto amoroso: West Side Story, trattato in questa recensione, è sopra ogni cosa uno sguardo indietro, una malinconica riflessione su un passato che tende alla modernità del presente.

Un passato da riscrivere

Le aspirazioni classiche erano già alla base del musical di Robbins, creato per Broadway assieme a Leonard Bernstein, Arthur Laurents e Stephen Sondheim (che dello spettacolo originale curarono rispettivamente musiche, libretto e testi). La storia è quella dell’amore impossibile tra il polacco Tony e la portoricana Maria, due anime unite dentro un mondo in guerra: Romeo e Giulietta fra i palazzi del West Side di Manhattan. Cambiano i protagonisti e gli orizzonti sociologici – invece dei Montecchi e dei Capuleti ci sono le gang degli americani Jets e dei portoricani Sharks – ma il succo è sempre quel dittico amore-odio di cui discorreva il Bardo: una tragedia di passioni esplosive dove romance fa rima con violenza, un saggio terribile sull’impossibilità di una pace sterile, non combattuta, che ha valore adesso come lo aveva nel 1957 a Broadway e, prima ancora, sui palcoscenici della Londra elisabettiana.

West Side Story recensione

Un discorso di scottante rilevanza culturale, che il celeberrimo adattamento (10 premi Oscar, tra cui miglior film) di Robbins e Wise affrontava con un senso del ritmo e dello spettacolo memorabili, ma anche alla luce di un’ambivalenza etica decisamente figlia del suo tempo. Agli occhi giudicanti dello spettatore odierno, il West side story originale appare come un film bellissimo ma invecchiato, un racconto sulla tragedia del razzismo che ricorre alla blackface e drammatizza l’America della finta-integrazione senza interpellare artisticamente i diretti interessati. Un classico paradossale, progressista e datato al tempo stesso: da qui la necessità di riportare sullo schermo West side story in una versione 2.0, moderna e scintillante, rispettosa nei confronti della sensibilità di oggi.

Politically correct, si è detto, ma il cinema non vive di compartimenti stagni, e l’evoluzione del mezzo artistico viaggia di pari passo con quella del suo pubblico. Non è un inneggiamento ad un revisionismo ottuso, ma una considerazione semplice sul modo in cui le storie cambiano insieme ai propri ascoltatori. È giusto quindi celebrare ancora la musicale spettacolarità del film originale. Ugualmente giusto, secondo chi scrive, riaggiornare, sfondare i limiti del “classico intoccabile” e farne qualcosa di più attuale e, perché no, eticamente risonante.

Obiettivo remake

Che a capo di questa missione vi sia Spielberg, autore americano par excellence, è segno di un’operazione artistica al di là della semplice rivisitazione. Il suo West side story è prima di tutto un passion project, un sogno in forma di musical rincorso per un’intera carriera e che Spielberg realizza ormai ultrasettantenne, pronto come mai a rimodernare un pezzo d’antiquariato. Dentro vi sintetizza il suo modo umanistico, totalizzante e americanissimo di concepire il cinema e il mondo, dalla parabola sulla paura del “diverso” de Il Ponte delle Spie al revisionismo baloccone e post-moderno di Ready Player One, dalle acrobazie di Indiana Jones al poeticismo storico-romanzesco di Schindler’s List. È presto per definirlo un testamento, ma in West Side Story vi è indubbiamente l’occhio di un artista rivolto indietro, verso il proprio trascorso artistico e familiare – la dedica finale del film è “to Dad”, “a papà”.

West Side Story recensione

Quella di Spielberg è una visione che al film originale è insieme parallela e perpendicolare. Dove Wise e Robbins cercavano la stilizzazione del loro presente, Spielberg punta a una vibrante reinvenzione del passato. All’Upper West Side teatrale del ‘61 ne preferisce uno caotico e in divenire, diviso fra le canzoni dei suoi abitanti e i vecchi palazzi distrutti su cui la new New York deve essere costruita – così come era successo per davvero con la gentrificazione degli anni Cinquanta e Sessanta. Con l’ausilio di un cast azzeccatissimo – in primis Rachel Zegler come Maria, ma anche il tanto chiacchierato Ansel Elgort nel ruolo di Tony – ci sentiamo di dire in questa recensione che il suo West side story si butta in mezzo alla mischia forsennata dei balli di strada, con un senso di appartenenza cittadina caloroso e tangibile. I suoi protagonisti non sono semplici figure narrative, ma dei newyorchesi in carne e ossa, residenti attuali che coinvolgono il vicinato quando scendono per strada a ballare e vivono in maniera realistica la propria tragica dimensione di non-appartenenza sociale. Attraverso i loro balli e i loro volti, ripresi in sfavillanti primi piani, Spielberg racconta di un passato storico e filmico in rovina, che si agita per restare a galla e resistere al futuro: una sinfonia di spettri che riprendono vita con il colore sgargiante del fidato Janusz Kamiński e le note impetuose di Bernstein.

Il musical rivisitato

Dentro il modello originale del musical classico americano Spielberg si inserisce a modo proprio, aggiustando e correggendo con una sensibilità che è anche quella del pubblico classico – lo stesso che è rimasto fedele al regista per tutta la sua lunghissima carriera. A questo sentire personale Spielberg si attiene testardamente, anche quando il sentimentalismo ha la meglio e la rivisitazione si fa controproducente – come per il nuovo posizionamento della famosa Somewhere, che smorza un momento importante del racconto.

Il musical, in questa sua veste popolare e modernizzata, diviene la rilettura di un immaginario meravigliosamente anacronistico, che con il linguaggio della finzione estrema rivolge al pubblico di oggi l’incanto dei vecchi modelli, come faceva qualche anno fa La La Land con Vincente Minnelli e Jacques Demy. Ma West Side Story si spinge più avanti del film di Chazelle, perché Spielberg non si limita a dialogare con il presente: lo racconta, parlando degli odierni conflitti culturali, delle contraddizioni del proprio cinema e dell’industria filmica statunitense, della potenza immortale dello stilema hollywoodiano e della necessità di rivederlo, rivalutarlo, riproporlo.

West Side Story recensione

La considerazione al termine della recensione è che West side story vive tutto in questa tensione costante fra vecchio e nuovo, all’interno della quale Spielberg riesuma la Hollywood che lui stesso ha aiutato a ristrutturare. Il suo è un esercizio cinematografico che guarda al passato ma parla al tempo presente, di un rigore forse troppo spaesante per il pubblico di oggi. Uno sfizio autoriale che solo un regista santificato come Spielberg poteva permettersi, ma uno sfizio che ha il respiro di un genere rinnovato, di un’epoca cinematografica intera, di un classicismo che muore e rinasce nel tempo di un ballo e di una canzone.

West Side Story
8.5
Voto 8.5
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