Il genere di film sui sottomarini ha regalato negli anni pellicole appassionate e di un certo spessore. Basta citare “Caccia ad Ottobre Rosso”, oppure “U571” per farci tornare alla mente dei titoli accattivanti sull’argomento. Per fare dei film simili bisogna essere, prima di tutto, fan sfegatati di questo argomento. Antonin Baudry – il regista del film – non è da meno: ex diplomatico, fumettista – ed ora regista – era rimasto affascinato dalla vena poetica di questi spazi angusti, dove ogni azione o comportamento viene enfatizzato diventando questione di vita o di morte. Ha passato personalmente diversi giorni dentro uno di questi sarcofaghi acquatici, innamorandosi del microcosmo interno dove non esiste religione, politica o provenienza sociale. Conta solo la solidarietà, la fiducia, e il reagire insieme alle problematiche avverse. Il cameratismo e il rispetto sono infatti concetti ancora più forti in questo tipo di ambienti. Lo scenografo ha fatto un lavoro certosino, alternando set reali – dentro veri sommergibili – ad ambienti ricreati in studio. Nel film, ogni set è stato riprodotto a grandezza naturale con le stesse proporzioni di quelli veri, proprio per trasmettere questa claustrofobia e il senso di schiacciamento che provano queste persone. E cosa fa la differenza in questo mondo fatto di cecità e rumori da interpretare? “L’Orecchio D’oro”. Così viene chiamato Chanteraide (Francois Civil), giovane uomo addetto all’ascolto certosino di questi segnali sonori per interpretarli e classificarli. Dunque la fiducia è fondamentale, soprattutto nel suo orecchio. Commettere un errore significherebbe mettere l’equipaggio in pericolo di vita. In un ipotetico scenario di guerra fredda a fare da sfondo, una sua errata interpretazione tramuterà la situazione in un dramma concreto fra dissuasione nucleare e disinformazione. “La sinestesia” è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una “contaminazione” dei sensi nella percezione. Chanteraide possiede questa particolare capacità di tramutare alcuni suoni in immagini: è una sorta di Daredevil Marveliano, prestato per essere gli occhi e le orecchie del sommergibile stesso.La storia ruota principalmente intorno al suo personaggio diligente e ossessionato dal suo lavoro. Non c’è tempo di scoprire le sue altre passioni e i suoi sentimenti, sappiamo solo l’amore che ha per questo lavoro e il dovere con cui è chiamato ad affrontarlo. Il film è manicheo nel riprodurre i rituali e la routine di ogni addetto alle operazioni. Talmente dettagliato che spesso crea una sensazione respingente verso lo spettatore: come fosse di troppo in quel contesto e gli fosse precluso l’accesso. Wolf Call – Minaccia in alto Mare non contempla confusioni di sorta, e si apre subito con una frase di Aristotele per rivendicare l’identità e l’orgoglio di queste persone che vivono e muoiono in questo ventre di lamiera. “Ci sono tre tipi di uomini: I vivi, i morti e coloro che vanno in mare”. Le operazioni che vengono alternate tra misurare le carte, le comunicazioni via radio, e l’apertura e chiusura di ogni congegno, sono tutte ricreate fedelmente seguendo la disciplina e il rigore di questi uomini che parlano essenzialmente un loro codice interno di cui – solo loro – ne conoscono la codifica. Wolf Call – Minaccia in alto Mare, trasmette un suono che non riusciamo a percepire concretamente. Parla un linguaggio intimo e troppo sbilanciato verso una direzione: come se fosse elitario nei confronti dello spettatore, risultando poco inclusivo e, al contempo, algido nel rievocare l’ambiente militare, tra rigore e freddezza formale, con quel modo orgoglioso e scostante di raccontare una storia senza appassionarti necessariamente. Non è un film smaccato, che va verso lo spettatore ammaliandolo e comprandoselo piano piano attraverso stereotipi del genere o soluzioni frettolose per addolcirgli la pillola. Vuole semplicemente raccontare la sua storia, descrivendo queste azioni – anche quelle patriottiche – scandendo tempi e modi più congeniali per rivendicare un certo realismo di fondo. Paga il pegno, appunto, di non essere troppo coinvolgente e di limitare lo spettatore ad assistere a una sorta di documentario sull’argomento, ma con una storia cucita addosso. Sono quindi doverosi i paragoni con un altro grande film – altrettanto recente – a tema sommergibili: “Black Sea” del 2015 con Jude Law: questo si fregiava di essere altrettanto realistico sul piano formale ma, mescolando il genere con l’Heist movie, riusciva a farci entrare ancora meglio dentro quel mondo senza necessariamente annoiarci in alcuni passaggi.
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