Marie Colvin (1956-2012) è stata una delle più coraggiose reporter di guerra del giornalismo mondiale: giornalista per il Sunday Times specializzata in questioni sociopolitiche legate al Medio-Oriente, ha coperto i conflitti in Cecenia, Kosovo, Sierra Leone, Zimbabwe, Sri Lanka e Timor Est (dove, grazie alla sua presenza e il rifiuto di abbandonare un rifugio sotto attacco dalle forze indonesiane, ha salvato la vita a 1500 persone). Famosa per la sua dedizione, il suo senso della giustizia e la sua inconfondibile benda sull’occhio sinistro (occhio che perse a causa di una granata in Sri Lanka, dove denunciò una crisi umanitaria e un arrogante diniego dei diritti umani e internazionali da parte del governo nei confronti della comunità Tamil durante la guerra civile del 1985 nda), divenne il simbolo della ricerca della verità, del dovere civico della professione del giornalista e esempio di coraggio per i media di tutto il mondo. Soffrì per anni di disturbo post-traumatico da stress, ma ciò non le impedì di recarsi in Tunisia, Egitto e Libia durante la Primavera Araba del 2010, dove fu una degli ultimi giornalisti a intervistare Muammar Gheddafi prima della sua uccisione nel 2011.
Si introdusse illegalmente in Siria a causa del divieto governativo che vigeva contro la stampa estera. Recatasi a Homs nel pieno della guerra civile, descrisse il conflitto (tramite un broadcast satellitare sui più importanti enti televisivi mondiali) come “il peggiore conflitto di cui sono mai stata testimone” descrivendo uno “spietato attacco delle forze siriane nei confronti di civili innocenti”, facendo definitivamente luce sulle bugie del governo del presidente Assad. Morirà il 22 Febbraio (il giorno dopo aver parlato alle televisioni di tutto il mondo via satellite nda) insieme all’amico e fotografo Remi Ochlik a causa di un rudimentale congegno esplosivo sparato dalle forze siriane.
A Private War racconta coi mezzi del cinema le imprese della coraggiosa reporter (qui interpretata da Rosamund Pike in odore di seconda nomination all’Oscar) dall’esperienza in Sri Lanka fino all’ azione siriana dove troverà la morte. Il regista Matthew Heineman, apprezzato autore di documentari, cerca il compromesso tra l’algido biopic a stampo hollywoodiano e la sincerità cristallina del reportage, raccontando con dovizia di particolari le fasi degli ultimi anni di vita della Colvin assieme a una introspezione psicologica delle ragioni di un personaggio unico, scioccato dalle atrocità di cui è testimone, ma al contempo incapace di mettere la parola fine al suo dovere di giornalista di far luce sulle atrocità del presente. E’ un processo che, tutto sommato, dà frutti più che positivi, anche e soprattutto a un cast guidato da una Rosamund Pike molto generosa, ma che, vista la graduale marginale importanza che si dà al ruolo del reporter e al proliferare delle fake news, frutto dei nuovi media, avrebbe avuto bisogno di una spinta in più, così come la rappresentazione di un personaggio troppo coraggioso per questo presente.