Mega Man, sin dal suo debutto avvenuto nell’ormai lontano 1987, è diventato immediatamente uno dei brand più importanti brand per l’intera industria videoludica, tanto da aggiudicarsi il prestigioso posto di mascotte di Capcom. In oltre trent’anni di storia l’azienda giapponese ha tentato di espandere in mille modi l’universo del franchise, e probabilmente il tentativo più famoso è quello intitolato Mega Man X. Questa sotto-serie ha creato un vero e proprio fandom nel fandom, riuscendo perfino a surclassare il successo della serie madre per un certo periodo di tempo. Probabilmente questo è dovuto allo stile più serio e adolescenziale, rispetto al tono maggiormente family friendly della parte classica del franchise. Non sorprende, quindi, vedere molte opere che si ispirano a questo stile, come il famoso Azure Striker Gunvolt o Android Hunter A. Quest’ultimo non è solo il prodotto che analizziamo in questa recensione, ma un progetto creato dalla passione di un piccolo studio californiano.
Una lettera d’amore poco originale
Sin dai primi secondi dall’avvio dell’iniziale cinematica animata, l’opera di DigiPlox si dimostra una vera e propria lettera d’amore alle avventure futuristiche di Zero e X. Perfino la narrativa presenta fin troppe somiglianze con la serie Capcom, infatti il nostro protagonista deve fermare un’invasione di robot corrotti comandanti da un misterioso essere oscuro ed estremamente potente. A differenza dell’opera da cui deriva, la missione di A si ferma praticamente al suo incipit, riuscendo perfino a non offrire una conclusione concreta alle vicende narrate. Lodevole comunque l’impegno di creare delle cutscene per raccontare la storia, se non fosse che si nota una certa inesperienza nella regia, movimenti meccanici dei personaggi, o effetti di luce non proprio ottimali. Non è poi presente alcun genere di doppiaggio, non un vero e proprio difetto, essendo anche una scelta creativa per certi versi apprezzabile. Segnaliamo comunque la presenza della sola lingua inglese, anche se per la gioia di molti le righe di testo non sono eccessive, e il linguaggio facilmente comprensibile.
L’ispirazione al famigerato brand Capcom non si ferma solo alla narrativa e ai filmati, ma arriva perfino all’art design e allo stesso tipo di grafica realizzata. Android Hunter A si presenta con protagonisti e nemici con un’estetica fin troppo simile a quella della già citata serie del robottino blu, tanto che sembra di assistere a dei veri e propri “fan character” di quell’universo. Con questo non diciamo che il design dei personaggi sia brutto, anzi, alcuni di loro sono davvero ben curati e apprezzabili, ma risultano piuttosto generici e poco originali. Perfino le ambientazioni non presentano molta creatività, con scenografie altamente prevedibili e non proprio piacevoli alla vista. Risultano infatti spoglie e con poca dinamicità.
Ma dove spari?
Con tutto quello che abbiamo descritto fino a ora, non sorprende sapere che Android Hunter A tenta di emulare Mega Man anche nel puro e semplice gameplay. Ci ritroviamo quindi in un action platform 2.5D basato sulla precisione del giocatore, dove quest’ultimo deve calibrare ogni singola mossa per poter evitare il game over. Come è facile immaginare la scelta degli stage è libera, infatti l’utente ha la possibilità di selezionare qualsiasi livello del prodotto senza seguire alcun genere di ordine prestabilito. Questo però non vale per lo stage finale, visto che per giocarlo bisogna prima completare il resto dell’avventura. Le somiglianze non si limitano però solo al menù, ma anche al puro controllo e alle abilità che il protagonista A possiede. Il nostro eroe è in grado di sfruttare le stesse meccaniche del robot a cui si ispira: spara dei piccoli raggi dal braccio, salti nel muro e perfino un dash per rendere più veloci gli spostamenti. Il nostro consiglio è quello di giocare l’opera di DigiPlox con un controller invece che con la tastiera, questo perché soprattutto in questo ultimo caso l’impostazione dei controlli risulta piuttosto scomoda. Certo, è possibile modificare i pulsanti nel menù delle opzioni, ma per un platform del genere un controller risulta ben più adatto e preciso.
Questa strana creatura si dimostra un vero e proprio clone in ogni suo angolo, ma sembra comunque mancare qualcosa a questo piccolo titolo (creato da un team composto da sole cinque persone). Nel tentativo di ricreare fedelmente l’esperienza dell’epopea di casa Capcom, Android Hunter A non riesce a comprendere perfettamente e a riproporre una cosa che ha reso immortali alcuni capitoli di Mega Man X: il level design. Purtroppo gli sviluppatori hanno creato dei livelli spogli, con poca varietà strutturale, non immediatamente leggibili ad una prima occhiata e perfino bruttini da vedere all’occhio umano. L’Unreal Engine 4 non viene sfruttato in tutto il suo potenziale, ed è un vero peccato visto i risultati che questo motore grafico ha dimostrato di poter ottenere nel corso del tempo. In fin di conti ci troviamo di fronte a livelli difficili, come da tradizione in questa categoria di prodotti… ma non solo per il puro livello di sfida. Il prodotto non riesce ad essere abbastanza vario, tanto da sentire una certa ripetitività nonostante la breve durata per raggiungere i titoli di coda. Il team ha comunque tentato d’inserire qualche elemento qua e là per variare la formula, come l’apprezzabile personalizzazione dell’eroe che presenta molte opzioni, o la piccola sezione 3D a bordo di una moto.
Un ritorno agli anni 90
Il gioco non può poi farsi mancare le battaglie con i boss, che per certi versi sono la parte migliore dell’opera. Ci troviamo in combattimenti all’interno di una serie di piccole aree, dove il nostro obbiettivo è quello di scansare ogni singolo colpo del mostro e colpirlo abbastanza per sconfiggerlo. Queste battaglie presentano le stesse problematiche che abbiamo già descritto, seppur tendono a invogliare il giocatore nel continuare a provare per superare i propri limiti, proponendo sfide divertenti. Nonostante tutto in un breve viaggio di circa due o tre ore, il gioco risulta divertente, anche se di fatto sembra di trovarci di fronte a un fan game imperfetto più che a un prodotto a sé stante, e grazie a questo risulta stranamente appetibile per un determinato genere di pubblico.