Dopo tanta attesa, la quarta stagione di The Witcher è finalmente approdata su Netflix il 30 ottobre 2025. Questo capitolo è particolarmente significativo per più di un motivo, e non solo perché sancisce il passaggio di testimone per il ruolo di Geralt di Rivia, ma anche perché c’è l’obbligo morale di risollevare le sorti (e l’audience) dopo una stagione particolarmente sottotono.
Quindi a vestire i panni dello Strigo non è più Henry Cavill, ma Liam Hemsworth, e accanto a lui tornano Anya Chalotra (Yennefer) e Freya Allan (Ciri), ma la stagione accoglie anche volti nuovi: tra i più rilevanti c’è Laurence Fishburne nei panni di Regis, decisamente una delle conoscenze più singolari di Geralt (presenza che i videogiocatori apprezzeranno sicuramente). Tra la guerra che dilania il Continente, e la storia di Ciri (aka Falka) con la sua nuova “famiglia”, i Ratti, la trama della stagione 4 di The Witcher risulta abbastanza frastagliata, e ci accompagna tra gioie e dolori, di cui parleremo senza spoiler in questa recensione.
Tra guerra e ratti
In questa quarta stagione il mondo sembra fratturato, tanto sembrano caratteristiche e diverse le location che fanno da sfondo alla stagione. Geralt, Yennefer e Ciri sono lontani l’uno dall’altro, ciascuno con la propria battaglia da affrontare. Geralt si aggrega a una “hansa” nomade in un viaggio verso Nilfgaard in cerca di Ciri, e Yennefer, dal canto suo, cerca di ricostruire l’Ordine dei maghi, preparandosi a una guerra arcana contro Vilgefortz che sembra inevitabile. Quanto a Ciri, come già detto entra a far parte dei “Ratti” una banda di giovani ladri, una nuova famiglia che in un certo senso vede come il suo nuovo destino. Questa separazione narrativa è effettivamente ben delineata, e di certo non sembra un semplice escamotage per dare più spazio ai personaggi… nonostante per forza di cose i minutaggi non si sono rivelati distribuiti in modo equo come avremmo voluto (specialmente nei confronti di Geralt).
Questo frastagliare gli eventi però non ha avuto lo stesso risultato che ad esempio avevamo visto nella prima stagione, affondando quindi la curiosità in quella che si è rivelata ridondanza da “girare in tondo”: troppi archi narrativi, troppe sotto trame, e la sensazione che non tutto fosse davvero necessario. È quasi come se Netflix avesse deciso di spremere un’altra stagione prima del gran finale, e in alcuni momenti il risultato soffre di una certa dispersione.
Per fortuna il succo alla fin fine c’era, arricchito con alcune sequenze di battaglia estremamente riuscite (e finalmente abbiamo visto in azione il segno Yrden per intrappolare gli spiriti ndr), e degli intrighi politici che non hanno avuto lo stesso impatto del passato, ma anzi abbiamo visto molto del passato sgretolarsi in pochi minuti. Specialmente la parte politica ha perso spessore, soprattutto perché tra reclutamento e svolgimento si oscilla troppo tra azioni e conversazioni troppo retoriche. Il disequilibrio nei minutaggi di cui abbiamo parlato, di certo non aiuta.
Il “nuovo” Witcher
Dando un breve spazio alla questione che per molti era fondamentale, ovvero il testimone passato a Liam Hemsworth per il ruolo di Geralt, possiamo dire che l’attore inglese risulta promosso senza infamia e senza lode: l’interpretazione è stata sufficiente, nonostante in determinate occasioni la sua espressività è risultata spesso – paradossalmente – troppo spontanea, e meno “impostata” come quella di Geralt descritta in libri e videogiochi. Inoltre, guardando la serie in lingua originale, è possibile spesso notare come la voce sia “alla Geralt” solo in determinati momenti, mentre in molti altri si perde la tranquillità e il tono profondo che ha contraddistinto il personaggio. In tutto questo, possiamo dire che Henry Cavill aveva una marcia in più.
C’è anche da dire che per quanto riguarda le scene d’azione Hemsworth è risultato tuttavia molto convincente, cosa da non sottovalutare, e soprattutto che il Geralt di Hemsworth sembra avvicinarsi più al ritratto introverso e stanco dello Witcher letterario, piuttosto che a quello di Cavill nelle stagioni passate.
Anya Chalotra mantiene il suo fascino tormentato: la sua lotta interna tra potere e perdita, e condivide momenti di grande pathos, anche se non sempre il coprotagonismo le rende giustizia. Diciamo anche che sembra anche effettivamente più fragile e meno “potente”, almeno all’apparenza. Freya Allan ha il compito più duro, perché Ciri cresce, evolve, si scontra con le sue paure, con le sue perdite, e con la propria eredità: non è più la bambina in fuga, ma una giovane donna in cerca del suo vero posto nel mondo.
E in confronto ai libri?
Rispetto ai romanzi di Andrzej Sapkowski, questa stagione gioca su un terreno ambizioso: trae ispirazione da volumi come Il battesimo del fuoco e La torre della rondine, ma non va di pari passo, tutt’altro. Alcuni elementi – come la hansa di Geralt o l’introduzione di Regis – sono resi con una libertà che potrebbe dare molto fastidio ai puristi dei lavori dello scrittore polacco, dato che a tratti si saltano dei dettagli più oscuri o complessi presenti nei libri. Queste libertà hanno chiaramente un prezzo: certe semplificazioni o scelte originali dello show non sempre rispettano la profondità morale e filosofica dei romanzi. Per chi ha amato Sapkowski, la stagione può sembrare meno “magica” nelle verità, ma per altri può sicuramente risultare un passo verso una “visione più televisiva”, che prova a reinventare l’universo senza tradirlo fino in fondo.

