La terza legge della dinamica recita: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Questo principio è applicabile anche al di fuori del mondo della fisica, ed è il perno attorno a cui ruota 1922, film Netflix basato su un racconto di Stephen King contenuto nella raccolta del 2010 Notte Buia, Niente Stelle.
In Nebraska, nel 1922, i rapporti fra l’agricoltore Wilfred James (Thomas Jane) e la moglie Arlette (Molly Parker) sono ai minimi storici, a causa di un terreno lasciato in eredità a quest’ultima. Se da un lato Wilfred, con il supporto del figlio adolescente Henry (Dylan Schmid) vede nei nuovi possedimenti un’opportunità per implementare la produzione di granturco, dall’altro Arlette vuole venderli così da potersi trasferire in città, abbandonando la vita rurale. Una notte padre e figlio fanno ubriacare la donna e la uccidono, per poi occultarne il cadavere in un pozzo. L’omicidio metterà in moto una catena di eventi che trasformeranno la vita di Wilfred e figlio in un incubo a occhi aperti.
Come in Grano Rosso Sangue (racconto contenuto in A Volte Ritornano e trasposto sul grande schermo nel 1984 a opera di Fritz Kiersch), Stephen King in 1922 riformula nell’horror la simbologia del grano, che passa da essere un simbolo di rinascita a incarnare la cupidigia dell’animo umano, elemento costante nella produzione del Re, così come è costante il suo riferimento ai classici autori horror americani. Se infatti l’ambientazione richiama le atmosfere immaginate da Lovecraft ne L’orrore di Dunwich e ne I ratti nei muri, lo svolgimento della narrazione è questa volta più simile ai lavori dell’altro grande maestro dell’autore del Maine, Edgar Allan Poe, richiamando elementi da Il Cuore Rivelatore e Il Gatto Nero.
Dopo il successo di Gerald’s Game, Netflix ci riprova adattando per il piccolo schermo (o monitor) un’altra opera di King, e anche questa volta il risultato è sorprendentemente buono. L’adattamento di Zack Hilditch riesce a tenere fede alle caratteristiche principali della produzione dello scrittore statunitense, riuscendo a creare un ibrido che coniuga caratteristiche proprie del thriller psicologico a quelle di un horror con una forte con forti venature gore, nonostante la camera non si soffermi per più di una frazione di secondo su questa.
Tenendo in considerazione la qualità media dei film prodotti per la televisione, la resa grafica del film è impressionante, con una fotografia ben curata che riesce sempre a far risaltare i contrasti fra i colori, anche negli ambienti scuri dove si svolge buona parte della narrazione. Ed è proprio in alcune scelte di ambienti che la pellicola evidenzia i suoi limiti. Buona parte della narrazione si svolge in spazi chiusi, che limitano il buon colpo d’occhio del regista e schiacciano troppo il film su un prodotto televisivo, se pur di ottimo livello. Inoltre, se la prima parte riesce a tenere un buon ritmo e a coinvolgere lo spettatore, la seconda parte della pellicola risulta più compassata e meno brillante, tenuta insieme da un Thomas Jane impressionante nella parte. L’ex Punisher, riesce a dare complesse sfumature psicologiche a un personaggio, quello del contadino burbero e dispotico, che rischiava di divenire poco più un insieme di stereotipi, se non fosse stato affidato all’interprete giusto. La faccia spigolosa e l’attenzione da parte di Jane nel marcare il costruito accento del sud lo rendono perfetto per il ruolo.
Nel complesso un film godibile, meglio di tante cose che si vedono in sala recentemente, che nonostante il suo target marcatamente televisivo serve da riconferma a Netflix sulla bontà della linea intrapresa.