Con Predator: Badlands (2025), il regista Dan Trachtenberg, già autore dell’acclamato Prey, torna a mettere mano a uno dei franchise più longevi e amati della fantascienza. Questa volta, però, il regista sceglie una strada diversa: sempre sullo stile survival, aggiungendo però più introspezione, trasformando la caccia in una riflessione sulla natura stessa del Predator e sul concetto di umanità. Personalmente credo che Trachtenberg questa volta abbia studiato più a fondo il materiale di partenza, comprendendo realmente la figura del Predator, per poi distruggerla completamente per creare la sua versione.
Il film è ambientato in un pianeta selvaggio (Genna), in un mondo dove la civiltà non esiste e sopravvive solo il più forte, un mondo dove tutti sono prede. Ma in mezzo a questo caos, emerge un Predator inedito: più riflessivo, più vulnerabile, più umano. Eppure anche più letale. Badlands prova a rinnovare il mito senza rinunciare alle radici, mescolando azione, introspezione e fantascienza in un equilibrio ambizioso, ma abbastanza riuscito.
Personaggi e interpretazione
Tra i protagonisti spicca Elle Fanning, qui in un doppio ruolo che sorprende per intensità e sfumature: interpreta non uno, ma due personaggi, due sintetici “sorelle”, una più incentrata all’azione e l’altra è una scienziata. Un esperimento narrativo coraggioso che funziona, anche grazie alla sensibilità con cui l’attrice bilancia vulnerabilità e forza. La storia si svilupperà proprio su quest’ultima e sul suo incontro con il Predator da cui nascerà un’alleanza inaspettata.
Il Predator, invece, è finalmente posto al centro della scena. Non più semplice antagonista, ma figura tragica, costretta a confrontarsi con emozioni umane che lo indeboliscono e allo stesso tempo lo rendono più complesso, questa umanizzazione del Predator non è solo caratteriale, ma è anche fisica, infatti, rispetto ai suoi predecessori è molto più piccolo e perfino il volto è molto più vicino a quello di un essere umano piuttosto che di un classico Predator, scelta chiaramente voluta, ma molto rischiosa che potrebbe non piacere allo zoccolo duro dei puristi della saga. È un ritratto nuovo, inaspettato, che spezza la tradizione del mostro implacabile per dare spazio a un personaggio più “sentito”, capace di suscitare empatia, sembra ormai che nel cinema odierno non ci sia più spazio per l’uomo forte e burbero che non deve chiedere mai, senza approfondimento sentimentale e questo film sembra dire, se ci siamo riusciti noi con un Predator può farlo chiunque.

Come creo il Predator del 2025?
Uno degli aspetti più interessanti di Predator: Badlands è la sua lettura contemporanea. Dietro la brutalità e l’azione, il film nasconde una riflessione profonda sul rapporto tra l’uomo e la sua stessa violenza. Il Predator diventa metafora dell’essere umano moderno: un cacciatore che ha perso il senso della propria esistenza, in bilico tra razionalità e istinto.
La pellicola affronta temi come l’etica della sopravvivenza, la paura del diverso e la ricerca di identità in un mondo dove i confini morali si fanno sempre più sfumati. I riferimenti alla Weyland-Yutani Corporation e ai sintetici stabiliscono un legame con l’universo di Alien, ampliando la mitologia del franchise e gettando le basi per possibili crossover futuri.
Tuttavia, non tutto funziona: l’inserimento di momenti di umorismo “alla Disney” spezza a tratti il tono forte ed adulto del racconto, smorzando la tensione emotiva e rendendo alcune scene meno incisive. È una scelta che appare fuori luogo in un film che, per il resto, mantiene un approccio maturo e visivamente potente.
Ritmo e aspetti tecnici
Dal punto di vista tecnico, Badlands è solido e spettacolare. La fotografia, dominata da toni caldi e polverosi, con un uso smodato del tanto caro ad Hollywood “Teal and Orange” restituisce l’atmosfera desolata di un mondo ostile, mentre la regia di Trachtenberg alterna con abilità sequenze d’azione serrate a momenti più intimi e contemplativi. Le scene di caccia sono tra le migliori della saga: coreografate con precisione, brutali ma leggibili, sempre al servizio della tensione narrativa.
La colonna sonora, invece, rappresenta uno degli elementi meno convincenti. Pur accompagnando efficacemente le sequenze più movimentate, tenta di emulare senza successo le atmosfere musicali dei capitoli precedenti, risultando poco originale, giusto uno o due brani riescono veramente a restarti in testa.
Il ritmo è altalenante: la prima metà del film funziona alla perfezione, mentre la seconda rallenta per dare spazio alla componente drammatica e filosofica, perdendo a tratti la forza d’impatto che aveva caratterizzato l’inizio. Nonostante ciò, la regia mantiene un controllo costante sul tono generale, evitando che la pellicola scivoli nell’eccesso o nella confusione.
