Capita che escano giochi su cui fa leva un’intera generazione, prodotti su cui grava il peso delle responsabilità di una software house e del futuro del publisher stesso. Starfield, di cui vi parliamo in recensione, è sicuramente uno di questi. Dopo l’acquisizione multimilionaria da parte di Microsoft e, soprattutto, dopo il flop di Redfall (lo sfortunato sparatutto sviluppato da Arkane), Bethesda ha deciso di puntare tutto sul suo ambizioso titolo spaziale, una cosa mai vista prima sulla carta – si parla infatti di oltre 1000 pianeti esplorabili o giù di lì – e sfiorata per motivi diversi dall’altrettanto discusso No Man’s Sky.
Starfield è stato concepito però con in mente un’idea diversa rispetto al noto titolo spaziale di Hello Games, dovendo infatti non solo colmare il vuoto che ci separa da The Elder Scrolls VI (obiettivamente annunciato troppo presto, per stessa ammissione di Todd Howard), ma andando a rappresentare di fatto il gioco atto a rilanciare i titoli first party di Xbox agli occhi dei giocatori. In soldoni, l’epopea sci-fi di Bethesda non può e non deve sbagliare.
Un’epopea stellare
Ora, meglio chiarirlo subito, il pericolo di avere tra le mani un prodotto incompleto, buggato (come da tradizione Bethesda) e incapace di soddisfare le aspettative, è sventato, sebbene vien da sé che non ci troviamo dinanzi al prodotto perfetto che in molti auspicavano.
Ma andiamo per gradi: Starfield abbandona il fantasy e il post-apocalittico per portarci in un futuro in cui la razza umana è partita alla volta delle stelle. All’inizio del gioco ci ritroveremo ad aver perso i sensi all’interno di una stazione mineraria: apparentemente non abbiamo riportato nessun danno fisico, sebbene sarà in quel momento che decideremo chi essere.
Grazie alla fotogrammetria, Bethesda ci dà modo di creare esseri umani dalle fattezze più realistiche possibili, dal volto alla corporatura, tutte in grado di rendere il nostro alter ego quanto più verosimile possibile sotto l’aspetto estetico e non solo. Che si parli di soldati, esploratori, cacciatori di taglie, esploratori, pellegrini, coloni spaziali o medici, le identità che potremo attribuire al protagonista di Starfield sono davvero tantissime, il tutto rafforzato da ben cinque skill tree (abilità fisiche, relazionali, di combattimento, legate alla tecnologia e alla scienza). Ogni tratto porta con sé pro e contro, sebbene con l’avanzare della storia – e salendo di livello – saremo in grado di modificare aspetti della nostra personalità.
La missione del nostro alter ego vedrà l’interessamento della Constellation, un gruppo composto di base dagli ultimi, autentici, esploratori della galassia. I suoi membri sono infatti determinati a scoprire i grandi misteri dell’universo e della natura umana, e per farlo si mettono sulle tracce di alcuni manufatti alieni, manufatti su cui anche il protagonista sembra avere un qualche tipo di collegamento.
In tutto questo non saremo soli: dalla scienziata Noel, passando per l’ex cowboy spaziale Sam Coe, il miliardario Walter e, soprattutto, l”androide VASCO, molti NPC potranno accompagnarci nel nostro viaggio attraverso le stelle, disponendo di abilità peculiari particolarmente utili per la resa di alcune missioni. Missioni che, come ovvio, si svolgeranno in decine di centri disseminati negli oltre mille pianeti di Starfield. Ed è qui che entra in campo la questione legata all’esplorazione, punto di forza su cui ha fatto leva Bethesda sin dall’annuncio ufficiale del gioco. Meglio dirlo subito: se pensate di avere l’intero spazio a disposizione, dovrete ricredervi.
Un’esplorazione particolare
Più nel dettaglio, i pianeti su Starfield avranno dei punti precisi in cui si può atterrare (più di uno, chiaramente) con regioni esplorabili limitate a un’area abbastanza vasta e con dei punti d’interesse. E no, i “muri invisibili” che hanno creato non poche preoccupazioni non sono proprio definibili tali. Quando si atterra su un pianeta, infatti, il gioco genera una mappa partendo da quel preciso punto in poi. In altre parole, attorno alla nave viene creato una sorta di “cubo” esplorabile a piacimento, quindi se atterriamo al punto in cui in cui avete incontrato un messaggio di confine (il cosiddetto “muro”) il gioco caricherà un nuovo segmento esplorabile. Quindi sì, potremo visitare tutti i pianeti e le loro superfici, sebbene è necessario che il gioco crei una nuova mappa ogniqualvolta decideremo di spostarci.
Considerando che una singola regione è grande circa quanto Skyrim, l’idea che ci siamo fatti è che Bethesda abbia optato per questa scelta al fine di non appesantire troppo il Creation Engine. Dopotutto, tra PNG, nemici, posizione degli oggetti, dei dungeon e molto altro, rendere il tutto davvero “open world” avrebbe rappresentato un’impresa tecnica inutilmente faticosa. Il gioco ti limita quindi l’esplorazione per invitarti ad atterrare in un altro punto e quindi poter caricare un’altra porzione di mappa.
Fortunatamente, la varietà non manca, potendo infatti calcare il suolo di corpi celesti di ogni genere e dimensione, da lune a insediamenti coloniali, passando per pianeti molto più simili alla Terra. In tal senso il titolo Bethesda, impossibile negarlo, ci offre scorci intergalattici di rara bellezza. Su ogni pianeta, quindi, il protagonista potrà dedicarsi all’esplorazione vera e propria, che sia legata alla raccolta di risorse (sì, in questo il gioco ricorda No Man’s Sky) o all’ottenimento di un determinato obiettivo di missione.
Non mancano infine sessioni alla guida della nostra astronave, pronta a solcare i meandri dello spazio profondo, con la possibilità di modificare ogni aspetto del velivolo e di imbattersi in altri piloti e pirati interstellari, coi quali potremmo ingaggiare scontri degni di un simulatore spaziale.
Scavando a fondo, però, emergono alcuni problemi difficili da ignorare: come prima cosa, l’esplorazione è spesso vanificata. Può capitare infatti di camminare ore per raggiungere una caverna o un cratere, per poi scoprire di aver fatto un lungo percorso a vuoto. Rendere inutile o inefficace una passeggiata spaziale è infatti abbastanza frustrante di suo, specie nel 2023, in cui per i titoli open world molti sviluppatori hanno capito che il giocatore ha comunque bisogno di un incentivo per l’esplorazione e che il solo “godersi il panorama” spesso non basta.
A ciò aggiungiamo tutta a una serie di problemi che sembrano usciti da un gioco Bethesda di un paio di generazioni fa: le animazioni del personaggio inquadrato in terza persona sono spesso legnose e poco realistiche (e in un gioco del genere è un pugno in un occhio), così come alcuni scenari generati proceduralmente appaiono generalmente vuoti e privi di dettagli. Inoltre, a volte anche la IA dei vari personaggi che incontreremo nel corso delle missioni sembra uscita da un The Elder Scrolls IV: Oblivion qualsiasi, visto che potrà capitare più di una volta – a quest completata – che gli NPC con cui abbiamo interagito per ore non ci riconoscano più, facendo così crollare la sospensione dell’incredulità. Buona quella invece dei nemici, che riescono a sfruttare anche l’ambiente a proprio vantaggio quando si ingaggiano scontri a fuoco.
Vero, nel corso del nostro test non siamo incappati nei classici “bug alla Skyrim“ divenuti un meme col passare degli anni, ma vedere come alcuni ostacoli tecnici facciano sembrare Starfield un gioco di oltre dieci anni fa, è abbastanza frustrante. Di convesso, nel gioco c’è davvero tanto da fare e da vedere: oltre alle classiche missioni, la libertà di approccio ci permetterà di creare punti abitativi sfruttando quanto offerto dal pianeta di approdo, dando vita a moduli abitativi da ritoccare e migliorare col tempo, il tutto con la possibilità di assegnare personale ai vari avamposti. Una mappa stellare ci aiuta inoltre a capire le caratteristiche del pianeta sul quale ci si trova, con la possibilità di passare dal corpo celeste in cui stazioniamo al suo sistema, con ogni dettaglio possibile sui vari pianeti, incluse informazioni su punti d’interesse e forme di vita presenti.