Anni ’60. Un uomo misterioso (Nick Offerman) seppellisce una borsa piena di soldi sotto le assi del pavimento di una camera del El Royal, un motel extra-kitsch costruito esattamente sul confine tra California e Nevada, solo per essere ucciso subito dopo.
Dieci anni dopo, il prete cattolico Daniel Flynn (Jeff Bridges), la cantante Darlene (Cynthia Erivo), il venditore porta a porta Laramie (Jon Hamm) e la hippie Emily (Dakota Johnson) giungono al El Royale, dove vengono accolti dal timido e nevrotico Miles (Lewis Pullman), unico dipendente dell’hotel.
Ma tutti gli ospiti nascondono più di un segreto, così come l’albergo a metà tra stile rustico e glamour. Chi sono in realtà? Cosa sono venuti a fare e perché?
Il film di apertura della Festa del Cinema di Roma, 7 Sconosciuti al El Royale è un neo-noir con elementi di generi differenti sparsi per tutto il film: un po’ spy-movie, un po’ crime-drama, un po’musical, un po’ action-movie e altro. Il regista Drew Goddar ama fare commistione, giocare coi luoghi comuni e gli elementi che li contraddistinguono, basta pensare al ricettacolo di props del cinema horror messo assieme nel fantastico Quella Casa nel Bosco (2012) o la svolta sci-fi del found-footage in Cloverfield (2008). Ci sono tanti (troppi) rimandi ad autori del cinema in 7 Sconosciuti: il romanticismo gangster di Arthur Penn, la struttura narrativa alla Agatha Christie (in particolare Dieci Piccoli Indiani, nda), lo spy-movie tra Sidney Lumet e Coppola, la violenza pulp del cinema di Tarantino (4 Rooms, tanto per sceglierne uno), la corruzione politica di Costa-Gavras e il pensiero post-moderno sugli strumenti del cinema tra Carax e Assayas.
E’ un po’ tanto da digerire, ma il risultato è particolarmente piacevole, grazie e soprattutto a un cast pregiato di vecchie glorie e nuove star, capitanate da un mostro sacro come Jeff Bridges, sempre particolarmente generoso a prescindere dai progetti che lo richiedono. 7 Sconosciuti è sorprendentemente pulito nell’esecuzione, a tratti forse troppo innamorato della sua pretesa di far coesistere così tanti generi in un unico film, di cui il primo sintomo è una lunghezza eccessiva per un lungometraggio ragionato per lo più per un pubblico popolare.