Ammettiamolo, almeno una volta nella vita l’abbiamo fatto tutti. Chiunque di noi, nel vedere l’ignaro protagonista del film horror che scende le scale verso morte certa, gli ha gridato in cuor suo: “Scappa via, non scendere!“. Di scene inspiegabili e no sense sono pieni numerosi giochi di questo genere; tra tutti, la saga più longeva di Capcom, Resident Evil, è quella che nel corso degli anni è stata la più bistrattata. Dall’ormai iconica scena del Jill Sandwich del primo capitolo fino alla spettacolare, per quanto irrealistica, sequenza dell’elicottero in Resident Evil 6, in molti hanno considerato la saga partorita dalla mente di Shinji Mikami e Tokuro Fujiwara come eccessivamente sopra le righe e forse, negli anni, è stata proprio questa la sua forza. Armi biologiche che si ingigantiscono capitolo dopo capitolo, un arsenale di armi sempre più vasto e letale, Albert Wesker che acquisisce nuovi super poteri ad ogni sua apparizione, ed un fantomatico lanciarazzi che compare dal nulla sempre sul finale per salvarci la pelle. Insomma, di motivi per giudicarlo “irrealistico”, ce ne sono. Ma siamo veramente certi che, nell’intero panorama videoludico, le disavventure di Chris, Leon e compagnia siano davvero quelle più assurde?
Non aprite quella porta
Perché lo stiamo facendo? É questa la domanda ricorrente nella nostra mente quando attraversiamo lugubri corridoi, armati solo di una torcia e del nostro coraggio, mentre ci avventuriamo verso l’ignoto accompagnati dai lamenti di presenze spettrali che vogliono farci la pelle. Non so voi, ma io me la sarei data a gambe… oppure, mi sarei presentato armato fino ai denti. Uno dei presunti punti deboli della saga zombie per eccellenza è la poca plausibilità dell’armamentario che i nostri eroi si portano dietro. É vero, in una reale apocalisse zombie difficilmente troveremmo caricatori sparsi in giro per le strade, men che meno un dubbio mercante pronto a venderci fucili a pompa nascosti in chissà quale tasca. Ma, se ci pensiamo bene, forse Resident Evil è proprio quello che giustifica con maggior raziocinio la sua essenza.
Se diamo infatti uno sguardo al panorama videoludico attuale, quello composto da una miriade di “veri” horror che ogni giorno compaiono su STEAM, la coerenza narrativa non la fa quasi mai da padrone. Prendiamo per esempio Outlast: il nostro Miles ha appena ricevuto una soffiata su un misterioso centro psichiatrico dove le persone continuano a scomparire. L’idea migliore, in questo caso, è ovviamente quella di presentarsi equipaggiati di una semplice videocamera. E anche quando si renderà conto della situazione disperata, contornata da cadaveri e litri di sangue sparso ovunque, Miles deciderà non di darsela a gambe, ma piuttosto che è bene continuare ad esplorare senza mai cercare armi con cui difendersi. In fin dei conti, cosa c’è di meglio che dare la vita per un pezzo da prima pagina?
Il realismo, dicevamo. Chiunque di noi si fermerebbe a raccogliere le otto pagine per risolvere il mistero di Slender Man, continuerebbe a lavorare in quel posto accogliente che è il Freddy Fazbear’s Pizza, prolungherebbe le proprie chiacchierate con i fantasmi di Phasmophobia quando pochi secondi prima questi hanno risucchiato il compagno di turno. Sono moltissimi i titoli nei quali il nostro protagonista si risveglia in un luogo da incubo, senza sapere chi sia, né come sia finito lì; e, per una qual certa motivazione più o meno accennata, non può o non vuole andarsene. In fin dei conti, la soluzione per sciogliere un antico maleficio è da sempre sparsa in foglietti disseminati qua e là per la mappa, è cosa risaputa. E il tutto va rigorosamente risolto a suon di torce intermittenti. Strano come le batterie durino solo una manciata di secondi, come è altrettanto strano trovarne dentro ogni cassetto d’improbabili casa abbandonate. Sicuramente più realistico di trovare armi e proiettili, però, non dimentichiamolo.
Ci pagano per questo
In Resident Evil, almeno, sappiamo esattamente cosa stiamo facendo. Che sia il soccorso della squadra Bravo, il salvataggio della figlia del presidente degli Stati Uniti, la ricerca di un familiare scomparso, o, come accadrà tra qualche mese nell’ottavo capitolo, Resident Evil Village, il rapimento di nostra figlia, tornare indietro è l’ultima delle nostre opzioni. E diamine, stiamo per affrontare una multinazionale farmaceutica che ha sviluppato un virus letale in grado di trasformare gli uomini in inarrestabili macchine di morte: col cavolo che mi porto solo una torcia. Questo significa che la struttura narrativa di Resident Evil giustifichi ogni scelta degli sviluppatori? No, significa semplicemente che Resident Evil possiede la coerenza tipica del suo genere. L’horror, che sia espressione di un videogioco o di un film, si basa da sempre su alcuni stilemi classici che lo caratterizzano, e che sebbene vengano reinventati ogni volta per dare un’identità ben precisa al prodotto in questione, manterranno sempre i propri pregi e difetti.
Certo, negli anni le libertà che Capcom si è presa per la sua saga si sono fatte sempre importanti, e Resident Evil ha visto transitare sugli schermi zombie, cani mutanti, licker, hunter, pipistrelli giganti, Nemesis vari e, nella sua prossima incarnazione, donne vampiro alte più di due metri. Il brand ha anche visto Chris far crescere i propri muscoli a dismisura tanto da rompere macigni a pugni, Leon portare con sé un intero arsenale di armi andandosene in giro indossando solo una t-shirt, Ethan riattaccarsi un braccio con un po’ di acqua colorata, e molte altre scene ai limiti del reale. Ma, ne siamo certi, Resident Evil è in ottima compagnia. In questi anni abbiamo visto videogiochi horror di ogni genere, con trame più o meno coerenti, con situazioni e protagonisti più o meno no sense. Quello su cui forse dovremmo fermarci a riflettere è la sospensione dell’incredulità. Che l’eroe abbia una missione plausibile, che sia equipaggiato in modo realistico, o che compia azioni assurde, dovrebbe importarci poco. Il videogioco deve divertirci, appassionarci e, soprattutto, farci evadere dalla realtà. Lo amiamo per questo.