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La Casa di Jack – Recensione del nuovo film di Lars von Trier

Ci troviamo in un’imprecisata località dell’America degli anni ‘70: Jack (Matt Dillon) è un architetto con tendenze ossessivo-compulsive, ma possiede una grande cultura filosofica-artistica. Dopo aver ucciso, in un raptus d’ira, un’autostoppista logorroica e insofferente (Uma Thurman), comincia una carriera come serial-killer, acquisendo, un omicidio dopo l’altro, una sempre maggiore sicurezza nelle sue abilità e consapevolezza di sé stesso e del mondo. Attraverso un dialogo dai toni danteschi con l’anziano Verge (Bruno Gantz), Jack espone la sua teoria sul mondo, sul crimine come forma d’arte e sull’omicidio, la sua forma più alta. L’uomo tenterà, attraverso uccisioni sempre più crudeli e fantasiose, di raggiungere un ideale di bellezza senza precedenti.

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Fine regista, artista sopravvalutato, genio incompreso e provocatore fine a sé stesso. In una parola, divisivo. Questo è il termine che meglio descrive la carriera e la figura di Lars Von Trier: sin da L’Elemento del Crimine (1984) il regista ha raccontato sé stesso e noi, creando nel frattempo (insieme a Thomas Vitenberg) il movimento artistico Dogma 95. Passando dalla Trilogia del cuore d’oro (Le Onde del Destino, Idioti, Dancers in The Dark) fino alla più recente Trilogia della Depressione (Antichrist, Melancholia, Nymphomaniac) il regista dialoga con noi sulle contraddizioni umane, sulla moralità e l’immoralità della società, aggiungendo da sempre il ruolo passivo ed extradiegetico dello spettatore. I risultati di Von Trier nel corso di una carriera lunga ormai 35 anni sono come lui stesso, divisivi; tra premi importanti (tra cui una Palma d’Oro per Dancers in The Dark a Cannes) e una critica estremizzata tra fedeli ammiratori e fieri detrattori.

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La Casa di Jack, presentato in anteprima all’ultima edizione del Festival Cinematografico di Cannes, è ancora una volta polarizzante: c’è chi lo acclama come uno dei lavori più ambiziosi del maestro, altri come prova dell’arroganza di un regista che tutto sommato ha già offerto tutto quello che aveva da dire. Ma, come succede molto spesso, la verità potrebbe stare nel mezzo? Questa versione anni ‘70 della storia di Jack Lo Squartatore è sicuramente ambiziosa e presenta tutto quello che c’è da aspettarsi da un film targato Von Trier: una regia corsara e al contempo chirurgica, riferimenti culturali degni di un fine umanista a braccetto con citazioni e dimensioni pop, un’alternativa allo status quo cinematografico (che però non risulta particolarmente intelligibile). Ma la violenza oltre le righe che permea il film, tra immagini inutilmente cruente e inutilmente provocatorie, finisce per stufare presto, decretando il destino di un’ambizione forse troppo grande, quella di raccontare il Male che alberga in ognuno di noi.

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In definitiva per quanto riguarda il desiderio di raccontare in maniera viscerale la natura dell’uomo che ha segnato tutta la sua filmografia, La Casa di Jack è forse l’esercizio meno riuscito di Lars Von Trier, incapace di spingersi al di là di un personaggio e di una storia che, nelle mani dell’artista danese, sembrava essere destinata a diventare uno dei suoi film più prestigiosi.

La Casa di Jack

6.5

Un dialogo sulle ragioni del Male e sull'impulso alla violenza, La Casa di Jack non si erge al di sopra delle sue aspettative, risultando uno dei film meno riusciti di Lars Von Trier.

Pierfranco Allegri
Pierfranco nasce a Chiavari il 1 Aprile 1994. Si diploma presso il liceo Classico Federico Delpino e studia Cinema e Sceneggiatura presso la Scuola Holden di Torino. Al momento scrive recensioni online (attività cominciata nel 2015) presso varie riviste tra cui GameLegnds e Cinefusi.it

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