Oscurità, demoni, preti, suore. Paure ataviche e figure melliflue che da sempre definiscono l’infanzia del regista Bolognese. Pupi Avati si presenta alla stampa un po’ disilluso per le evidenti difficoltà produttive che ha dovuto affrontare, anche a causa di una stagione italiana costellata (puntualmente) solo dalle solite commedie ridanciane e da pochi generi diversificati che hanno rallentato la credibilità nel progetto e, di conseguenza, la partenza della pellicola. Nonostante questo, riesce comunque ad essere l’irresistibile affabulatore che conosciamo. Un ottantenne sornione, grande oratore e comunicatore di fronte al pubblico presente. Spiega – nonostante le evidenti difficoltà nella lavorazione – che con grande entusiasmo è tornato a praticare il genere che lo ha consacrato: L’ horror. La sua passione per la fabula regionale, l’innocenza dell’età, le paure arcaiche per l’oscurità e per le figure clericali; sono molteplici le sue ossessioni e i riferimenti che ritornano in quest’ultimo lavoro che prende spunto dal suo libro omonimo. Paure ricorrenti che si mescolano ad attori che hanno collaborato con lui per altri numerosi progetti come Lino Capolicchio e Gianni Cavina. Il Signor Diavolo è ambientato nel 1952 nelle Valli di Comacchio, zone rurali dell’Emilia che Avati definisce così:
È come tornare indietro nel tempo. Tutto è fermo in quegli anni. L’ambientazione e le persone non hanno fatto nessun passo verso la modernizzazione.
È in quelle terre che ha sentito il bisogno di rappresentare una storia così anacronistica e pervasa dalla superstizione. Un processo per omicidio ad opera di un adolescente. Un ispettore del Ministero viene inviato ad indagare. La chiesa e i preti come custodi di un segreto inconfessabile.
L’ispettore Furio Momentè (Gabriele Lo Giudice) dovrà calarsi in quell’ambientazione surreale, provando a sbrogliare la matassa tra le aspettative dei suoi superiori e l’omertà generale. I dettagli sono forse la cifra stilistica più importante, dove le deformità umane e la paura dell’ignoto si mescolano ai particolari più sporchi e grotteschi che conferiscono alla pellicola una sua idea di far sentire allo spettatore tutta la suggestione che deriva da quei luoghi e in particolare da quel periodo storico pervaso da poche certezze, tanta ingenuità e tanto folclore. Forse questi sono gli unici aspetti interessanti di una storia abbastanza senile che, nonostante alcuni dettagli macabri e grotteschi, non mostra mai chiaramente la violenza più esplicita (tanto da poter giustificare il coinvolgimento di Sergio Stivaletti solo per sparute inquadrature sanguinolente) o l’aspetto più fantasy e immaginifico della storia. Le poche scene violente sono sollecitate più da effetti sonori enfatizzati (buffi per quanto eccessivi e scollati dall’azione) che per una reale immagine o azione sanguinolenta. Alcuni attori ai limiti del dilettantesco, aggiustanti con ritocchi pesanti in sede di doppiaggio. Il film rimane sempre più verboso che poderoso e interessante visivamente. Avati ha un modo di girare tendenzialmente poco brillante, con pochi virtuosismi, dove la resa fotografica sembrerebbe più adatta al piccolo schermo. Azzecca qualche suggestione o atmosfera, ma concretamente non riesce mai a portare quel risultato fino alla fine della pellicola. Proprio per questa serie di ragioni il film non catturerà molto l’attenzione dello spettatore medio, ormai più avvezzo a pellicole di stampo horror/truculento o storie più sofisticate e prive di una leggerezza di fondo. Qui la narrazione è abbastanza confusa e spezzata dai troppi personaggi secondari che intervengono (solo per pochi secondi) per apportare un dettaglio in più alla storia, ma che in realtà distolgono l’attenzione e lo sguardo verso il quadro generale. A ciò si aggiunge la tipologia di storia e le sue particolarità già ampiamente espresse nel cinema passato di Avati e in altri rimandi filmici. Sulla base di queste riflessioni è difficile trovare una collocazione ed un riscontro di interesse tangibile nella platea abituata a produzioni sempre più sontuose, inquietanti, ma soprattutto competitive per ciò che riguarda l’horror più puro. Il Signor Diavolo non si scatena mai, procede inesorabilmente con un passo felpato senza mai sforzarsi di stupire, ma solo regalando qualche ottimo spunto nostalgico e una senilità generale.