Hammamet è certamente anche un film su Bettino Craxi e al contempo non lo è. Il regista Gianni Amelio ci tiene a precisare (anche rabbiosamente) che il suo non è un film su Mani Pulite, sulla caduta del PSI (abbreviazione di Partito Socialista Italiano) e sulla fine di una età politica, quella della Prima Repubblica. Ma è innegabile che lo sia anche. C’è chi sostiene, in parte con ragione, che un film senza Milano e senza politica non può parlare di Craxi, qui addirittura mai chiamato per nome (elemento antipatico al regista) che attraverso i giorni dell’esilio/fuga/latitanza nella città tunisina che dà il titolo al film ne dipinge un ritratto in bilico tra realtà e licenza poetica.
D’altro canto, tutta la filmografia di Gianni Amelio è in bilico tra cinema di prosa e cinema di poesia e Hammamet, nel disegnare gli ultimi istanti di una figura controversa della nostra Italia più recente ma già lontana, non è da meno. Ma chi era d’altro canto Bettino Craxi? Per alcuni, l’ultimo grande statista, per altri un ladro senza scrupoli, arrogante, violento, maleducato. Ma anche una persona fragile, a volte tenero, con il suo mito della fedeltà trasmesso alla figlia, qui chiamata per ulteriore licenza poetica “Anita” come l’Anita di Garibaldi, suo personaggio storico prediletto.
Ed è anche questa un’altra costante del cinema di Amelio che ritorna: quello del rapporto padre e figli messo in scena nella cura amorevole sia di Anita (personaggio a metà tra l’Elettra di Euripide e Cordelia dal Re Lear di Shakespeare) verso lo sgarbato padre, e sia nel personaggio di Fausto, figura spettrale di un ventenne dagli occhi di ghiaccio venuta fino in Tunisia a vendicare la morte per suicidio del padre (ex-amico e coscienza di Craxi) solo per diventare figlio putativo dell’ex-leader nei suoi ultimi giorni e a cui rivelerà tutti i suoi segreti.
Amelio lavora con maestria sul gioco sottile tra realtà e finzione, colpisce con forza grazie a ricercatezze estetiche e alla rappresentazione di una dimensione politica filtrata dall’umanità di un uomo morente, ma perde più di una volta l’occasione di un finale azzeccato, sporcato forse nelle ultime battute da una scena onirica di gusto felliniano.
Ma la chiave di volta del film è la performance camaleontica di Pierfrancesco Favino (fresco del successo del suo Tommaso Buscetta in Il Traditore di Marco Bellocchio), che mantiene le promesse fatte nei primi impressionanti minuti di trailer. La trasformazione dell’attore cinquantenne in un morente Bettino Craxi (sostenuta dal trucco eccezionale di Andre Leanza e co.) è, in mancanza di un termine migliore, un capolavoro. La mimesi effettuata attraverso uno studio approfondito del personaggio e sulla ricerca della voce è un fulmine a ciel sereno nel panorama del cinema italiano, a lungo accusata dalla critica internazionale e dai maestri del mestiere di avere attori troppo superficiali nel processo di creazione del personaggio (salvo rare eccezioni). Favino evidenzia il suo talento mimetico e impressionistico e spiega l’insolita attrazione americana nei suoi riguardi con un processo di identificazione e trasformazione che ha rimandi naturali al metodo Strasberg dell’Actor Studio, scuola di recitazione americana che conta tra i grandi allievi Marlon Brando, Robert De Niro e Al Pacino. Qui non si vuole esagerare, ma il Craxi di Favino è l’apice di un percorso, la conferma di una tendenza di attori italiani sempre meno disposti a scendere a compromessi sulla creazione di personaggi credibili lontani da sé. Oltre a essere, probabilmente, uno spartiacque per future generazioni di attori e per tutto il cinema italiano.