Guillermo Del Toro’s Cabinet of Curiosities – Recensione della serie antologica di Netflix

Ecco la recensione di Guillermo Del Toro's Cabinet of curiosities, la serie antologica targata Netflix e prodotta dal regista messicano.

Giacomo Placucci
Di Giacomo Placucci - Contributor Recensioni Lettura da 8 minuti
7.5
Guillermo Del Toro's Cabinet of Curiosities

Prima ancora che regista, Guillermo Del Toro è un grandissimo appassionato di cinema. L’amore per la settima arte percorre tutta la sua opera, ed è divenuto col tempo sempre più apparente – il remake noir Nightmare Alley ne è l’ultima esternazione. Non è una passione riservata e segreta, ma anzi popolare, comunitaria, aperta alla visione altrui: sta anche qui la chiave degli innumerevoli progetti a cui il regista ha prestato il suo nome come produttore (La madre e The Orphanage, per dirne due). È bello, allora, vederlo ancora una volta in veste di mentore, un direttore d’orchestra dallo sguardo preciso e dalla mano sicura, capace di scegliere le voci giuste per il suo coro. Cabinet of curiosities, di cui parliamo in questa recensione, è un portfolio di alcuni dei nomi più interessanti del new horror – a cui si aggiungono un paio di autori più rodati – filtrato attraverso il gusto letterario e cinematografico del regista messicano. L’operazione di Del Toro, qui in veste di produttore, è quindi l’occasione di scoprire un manipolo di brillanti registi emergenti, ma anche di rivalutare il suo cinema da un’angolatura nuova, insolita, a suo modo imprescindibile.

Doppio binario

Sono due i registri su cui l’architettura della serie è costruita: il racconto breve, spesso di origine letteraria, e il cosmic horror. L’incrocio fra i due binari sta ovviamente nella doppietta di episodi tratti dall’opera seminale di H.P. Lovecraft: Il modello di Pickman, adattato da Keith Thomas (autore del notevole The vigil), e I sogni nella casa stregata, diretto da Catherine Hardwicke (la regista del primo Twilight). Ma lo stampo narrativo dell’autore di Providence influisce notevolmente anche sugli altri racconti.

Quasi tutte le storie, in effetti, si muovono attorno agli elementi chiave della mitologia lovecraftiana: misteriosi culti esoterici in Lotto 36 (di Guillermo Navarro, storico direttore della fotografia per Del Toro); creature sotterranee in I ratti nel cimitero (diretto da Vincenzo Natali, regista di Cube); invasioni aliene ne L’autopsia (David Prior, regista del cult The empty man); misteriosi oggetti di provenienza extraterrestre in La visita (Panos Cosmatos, autore del folle Mandy). Solo due episodi (L’apparenza di Ana Lily Amirpour e Il brusio di Jennifer Kent) si distaccano nei temi e nelle ambientazioni dalla matrice letteraria – creando qualche attrito tematico rispetto alla struttura generale della serie, altrimenti coesa e compatta nella scelta del modello di ispirazione.

Formato ridotto

Va da sé che un progetto come questo presenti una serie di difficoltà non da poco. La sfida principale, specie per i segmenti provenienti da fonti letterarie, è quella di sviluppare una drammaturgia che funzioni nello spazio del mediometraggio, e che possa sorreggere un episodio di massimo 60 minuti. E da questo punto di vista è giusto fare un plauso a Del Toro e ai suoi colleghi registi: al di là dei limiti intrinsechi ai singoli episodi, gli otto racconti funzionano distintamente e autonomamente nello spazio che gli è concesso. Quel che manca in coesione tematica viene dunque sopperito dalla grande varietà delle storie, ognuna originale e intrigante a modo suo.

Come in tutte le antologie, alcuni episodi funzionano meno di altri. Nonostante le ottime premesse, ad esempio, il segmento di Prior è quello meno convincente del lotto – complici un finale sbrigativo e un ricorso esagerato al dialogo didascalico.

L’adattamento lovecraftiano di Catherine Hardwicke, che gioca col fantastico all’acqua di rose (PG-13 direbbero negli States), è meno incisivo di quello di Thomas, e l’episodio finale di Kent appare fin troppo aderente alla formula semplicistica dell’horror “elevato” alla Babadook (sempre di Kent). Ma anche i segmenti meno compatti si distinguono a modo loro per l’eleganza e la personalità della messa in scena, e testimoniano una genuina passione per il progetto sia da parte dei registi che del loro supervisore generale.

Vale lo stesso per Lotto 36 e La visita, due incursioni divertenti e dignitosissime nell’immaginario mostruoso del regista messicano. Il primo, pur ricalcando fedelmente l’architettura del racconto classico, conquista per il suo clima appiccicoso e la precisione con cui costruisce il mistero soprannaturale – che culmina in una memorabile sequenza di paura dove il creature design la fa da padrone. Anche La visita, a modo suo, è un segmento singolare, un delirio lisergico synth-electro a metà fra Refn e Dawn FM di The Weeknd, in linea con lo stile masturbatorio e scenografico di Cosmatos.

Goduria horror

Gli episodi migliori, poi, sono dei veri e propri gioiellini. I ratti nel cimitero, con la sua struttura impeccabile da morality tale e il suo sguardo ironico e grottesco sull’avidità umana, è una chicca deliziosa, imperdibile per gli amanti dell’horror in costume. Anche L’apparenza, attraverso un approccio più moderno, risulta memorabile nel suo connubio tra psycho e body horror, in un impeccabile crescendo di disgusto paranoide che impressiona e coinvolge in egual misura.

Il vero capolavoro della collezione, in ogni caso, è Il modello di Pickman. Non solo per l’aderenza incredibile al tono e alla visione della storia originale, ma anche per la sapienza con cui Thomas ha messo in scena l’orrore senza strafare, sfruttando lo spazio ristretto dell’episodio per raccontare un universo soprannaturale spaventoso e irraggiungibile – il meccanismo chiave dell’opera di Lovecraft. Non era un processo semplice, perché la visione dello scrittore americano fa eco a sensazioni sotterranee, di portata mostruosa, difficili da inquadrare all’interno dell’immagine filmica. Thomas, però, ha fatto centro: il suo è uno degli adattamenti lovecraftiani più riusciti di sempre, e incapsula tutta la passione per il genere che il progetto di Del Toro vuole celebrare.

Cabinet of curiosities, in fin dei conti, è un atto di amore e di fiducia: amore per il genere e i suoi fondamenti; fiducia verso le nuove generazioni di autori che con essi dovranno fare i conti. Solo un cinefilo come Del Toro poteva farsi carico di una missione del genere: basterebbe questo, a prescindere dalle eventuali smagliature, a rendere la serie un progetto unico, completo, imperdibile. Un piccolo miracolo, e il più bel regalo che potessimo chiedere per Halloween.

Guillermo Del Toro's Cabinet of Curiosities
7.5
Voto 7.5
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