Il rapporto tra cinema e videogiochi non è mai stato dei migliori, ne sono una prova tutte quelle trasposizioni che negli anni non hanno portato ad altro che a lunghi sospiri, sia da parte dei fan, sia da parte dei cinefili. Il cinema, da sempre, detiene un legame con le altre forme di espressione che l’essere umano ha a disposizione per esprimere ciò che ha dentro, primo fra tutti la forma letteraria. Nel tempo tutto ciò si è evoluto, portando alla gestazione di lavori che attingono da altrove per poi imbastire discorsi del tutto, o quasi personali (guarda il lavoro fatto con Marvel). È proprio alla luce di tutto ciò che si origina una delle discussioni più animate sul web: il cinema deve necessariamente mantenersi legato alle varie ispirazioni da cui attinge, oppure si tratta di un mezzo che può e deve distaccarsi da queste, basando ogni suo ragionamento sul fatto che le possibilità di resa condurranno ad opere indipendenti, artisticamente parlando? Partendo da tutto ciò, vogliamo introdurre la nostra recensione di Mortal Kombat, film targato Warner Bros. che vede nuovamente tornare “sul grande schermo”, una saga videoludica che ha fatto la storia del medium stesso, e che continua ancora a far parlare di sé. La perseveranza di questi videogiochi, attraverso le ere, ovviamente germoglia dall’amore che i fan hanno provato e continuano a provare, capitolo dopo capitolo, uscita dopo uscita.
Parlare al passato
Mortal Kombat è una di quelle saghe, come detto sopra, che ha cambiato il volto stesso dei videogiochi. Figlia del suo periodo d’origine, ed ancora oggi fortemente legata ad esso. Fin dal primissimo capitolo, questi giochi si sono distinti da tutti gli altri soprattutto per la crudezza generale e la violenza che offrivano. Molte furono le polemiche già all’epoca, arginate con pazienza e con un certo tipo di propensione ad approfondire anche tutto il resto. Nel cuore pulsante del progetto, comunque, dimorava lo stile picchiaduro, uno stile che presuppone un certo tipo di approccio e che, anche a livello cinematografico, è sempre stato il marchio di fabbrica di questo brand.
Apriamo dunque le danze di questa recensione di Mortal Kombat, tenendo sempre un occhio puntato al passato, puntato alle origini di un lavoro fortemente legato a tutto ciò, centralizzato intorno a qualcosa che ad oggi potrebbe tranquillamente risultare anacronistico. Alla base del nuovo film Warner Bros., diretto da Simon McQuoid al suo debutto alla regia, c’è la stessa identica energia che ha disegnato i vari titoli fin dall’inizio. È proprio questo uno dei tratti più interessanti della pellicola, ovvero il suo stretto legame non soltanto con i suddetti videogiochi, ma anche con i suoi stessi fan. La trama si apre con una sequenza che preambola l’essenza stessa di tutto quello che vedremo in seguito. La violenza, la vendetta coreografica e l’incertezza vaga la fanno da padrona dall’inizio alla fine.
Nel Giappone del diciassettesimo secolo la violenza cala sulla famiglia di Hanzo Hasashi, per mano di Bi-Han, appartenente ad un clan ninja rivale. Da questo massacro, privo di qualsivoglia contestualizzazione di trama, partono tutti gli eventi successivi della pellicola. Trascorrono gli anni e ci vengono presentati i vari protagonisti: Cole Yang (Lewis Tan), Sonya Blade (Jessica McNamee), Kano (Josh Lawson), e così via. Il primo fra questi è il discendente più diretto di Hanzo, anche se la trama tende a muoversi in maniera più corale.
Uno dei problemi fondamentali di Mortal Kombat risiede proprio in questo, nel fatto che non si prende troppo tempo per introdurre coloro che si muovono nella sua struttura narrativa, affidando ogni cosa all’estetica e all’esperienza di chi guarda. Quindi gli eventi avanzano, anche in maniera sconclusionata, gettando addosso allo spettatore una miriade di dettagli, senza mai approfondire nulla. Questo conduce ad una storia estremamente classica e semplice, o semplificata, da cui fuoriescono una miriade di stereotipi che restano sempre e comunque tali.
È come se il regista e gli sceneggiatori avessero posto tutta la loro fiducia nell’amore dei fan storici, senza pensare agli altri, evitando, quindi, di introdurre le varie vicissitudini precedenti a quello che si vede. Ogni cosa, quindi, procede spedita in una strada costellata da coreografie che ricordano tantissimo i vecchi film di ninja (come La tigre e il Dragone, ad esempio), senza però troppo impegnarsi nel disegnare tutto il contorno. Restano il bene ed il male, restano i buoni sentimenti, restano gli eroi più classici che ci siano ed i cattivi immotivati, e restano anche tantissime domande aperte, tantissimi punti interrogativi da chiarire.
In base a quello che ci viene detto, i vari protagonisti, i “buoni”, dovranno partecipare ad un torneo di nome Mortal Kombat, per salvare la terra, cercando anche di trovare se stessi e le varie potenzialità insite in loro, insite in un marchio che segna la loro strada, destinandoli a qualcosa di più grande, a qualcosa di lontano ed allo stesso tempo vicino.
Sono i sottintesi, però, a muovere e a dipingere l’intero piano emotivo del film, sottintesi che vanno menzionati. Che significa? Semplicemente che moltissimo del materiale trattato riferisce sé stesso alla cultura videoludica dietro al film, incidendo negativamente su coloro che intendono approcciarsi al prodotto senza un minimo di conoscenza nei confronti del materiale trattato. In poche parole, tanto fan service e tante frivolezze prive di spiegazione. Moltissimi elementi a schermo non trovano una loro coerenza con il resto, riducendo il materiale trattato a tante piccole bozze appena accennate, o non scritte affatto.
E tutto il resto?
Dal punto di vista tecnico non c’è molto da dire su questo Mortal Kombat. La parte più curata resta quella delle coreografie nelle scene di combattimento, pur se alimentate da continue esagerazioni alle volte anche fuori tono. Le ambientazioni in cui vediamo i protagonisti e gli antagonisti muoversi destano un certo fascino, che resta tale, isolato e lontano dallo spettatore. I costumi sono coerenti con la caratterizzazione estetica (anche se anacronistici per certi versi), e la regia pur con qualche momento di singhiozzo, fa il suo dovere insieme alla colonna sonora super nostalgica. A coronare ogni cosa troviamo gli effetti speciali, giostrati agilmente dall’inizio alla fine, pur prediligendo pennellate fin troppo imperfette per tutto il resto. La mancanza di una cura narrativa generale si fa sentire dall’inizio alla fine, in una storia che non ha moltissimo di nuovo da raccontare, purtroppo. Il film verrà trasmesso in prima assoluta su Sky Cinema il 30 maggio.