Ragionare sul cinema col cinema? Niente di nuovo. D’altro canto, però, un momento straordinario come quello in cui viviamo oggi, in cui una industria già in crisi con l’arrivo dello streaming e del VR è messa in ginocchio da una epidemia che ci obbliga a tenere chiuse le sale, richiede più che mai un ragionamento autoriflessivo. Sembra quasi un danno che si aggiunge alla beffa vedere un film di questo genere prodotto e presentato in esclusiva da un nemico giurato della tradizione del cinema e della sala come Netflix. Danno che si va ad aggiungere all’argomento (più un pretesto narrativo che argomento vero e proprio, ma ci arriveremo) del nuovo film di David Fincher, Mank, ovvero la genesi del più famoso film della storia del cinema moderno, Quarto Potere di Orson Welles.
Mito nel mito
Fincher collabora ancora una volta con Netflix (dopo il successo di Mindhunter) per una storia mitologica del cinema che ha di per sé, appunto, connotati mitici: la gestazione del film risale agli ormai lontani anni ’90 quando il padre del regista, lo sceneggiatore e giornalista Jack Fincher (1930-2003), propone al figlio una sceneggiatura su Herman J. Mankiewicz, il mitico critico teatrale e sceneggiatore di Citizen Kane. Fincher figlio avrebbe dovuto dirigere il film subito dopo The Game (1997), ma data l’insistenza del regista di girare il film in bianco e nero, il progetto è finito presto nel dimenticatoio. Rispolverato a quasi vent’anni dalla morte del padre, Mank di David Fincher arriva “finalmente” sui piccoli schermi dal 4 dicembre 2020.
Hollywood Babilonia
Ho citato prima come l’argomento apparentemente centrale del film altro non sia che un pretesto, e spiego subito il motivo. Herman J. Mankiewicz (interpretato da un sempre idoneo Gary Oldman) sta effettivamente lavorando alla sceneggiatura del film di Welles (allora appena ventiquattrenne) in un isolato ranch della Carolina del Sud. Obbligato a letto a causa di un incidente stradale, la convalescenza/lavoro è un’ottima occasione per tenerlo lontano dall’alcol, sua grande debolezza che lo porterà alla morte nel 1953 a soli 55 anni.
Il film abbandona presto la formula da film making-of e procede in maniera decisamente poco lineare: flashback, tagli improvvisi, voice over, POV presentano il nostro “eroe” nella Hollywood ferita dalla Grande Depressione in un magnifico bianco e nero firmato dal D.o.P. di fiducia di Fincher Erik Messerschmidt.
Una babilonia in cui produttori e artisti vivono come Re ma vogliono ancora di più, in cui i poveri intasano le strade e nessuno a Hollywood sembra essere veramente soddisfatto di quello che è o di quello che fa. Segue un caleidoscopio di personaggi del mito del cinema, tra cui l’affascinante fratello del protagonista Joseph (Tom Pelphrey), il ruffiano e ipocrita capo della MGM Louis B. Mayer (Arliss Howard) e il suo astuto vice Irving Thalberg (Ferdinand Kingsley). Un micro universo su cui presiede la figura inquietante di William Randolph Hearst (Charles Dance), il potentissimo ed eccentrico magnate che ispirerà indirettamente il protagonista di Quarto Potere con la sua giovane compagna, la disillusa ma intelligente attrice Marion Davies, interpretata superbamente nel film da Amanda Seyfried.
Un gioco di contenuti e un mistero di fondo
Mank è un gioco di scatole cinesi nella maggior tradizione di cinema autoriflessivo: il film procede per rimandi e ammiccamenti al cinema di oggi e di ieri, demistifica una mitologia e i suoi protagonisti e crea un ponte tra paure del passato e sintomi del presente. La storica sceneggiatura che Mankiewicz sta scrivendo tradisce la struttura interna del film: non è una storia lineare, ma circolare, un “cinnamon roll” (un dolce americano cilindrico con una fantasia a spirale) come dice lo stesso Mank, arricchita da dialoghi al top della categoria che sembrano frutto del miglior Aaron Sorkin.
Fincher eleva le capacità di tutti i suoi (fidati) collaboratori al massimo: dalla già citata fotografia di Messerschmidt, alle superbe scenografie di Donald Graham Burt e alla perfetta colonna sonora firmata Reznor e Ross rendono Mank una festa per i sensi.
Rimane però un interrogativo mica da ridere: di cosa parla esattamente il film? Non è un biopic, dal momento che il protagonista sembra aver toccato il fondo da tanto (troppo) tempo. Non è una lettera d’amore al cinema, dal momento che sembra denunciare l’ipocrisia e l’amoralità di fondo della sua macchina produttiva. Non è la storia della genesi di Quarto Potere, dal momento che il dietro le quinte del film pare esclusivamente un pretesto poco approfondito.
Non so dire con esattezza di cosa parli Mank, ma so dire con certezza una cosa: Mank è un film di rara grandezza creativa e artistica, drammatica e cinematografica, in cui tutti gli elementi funzionano e nel miglior modo possibile e che rimarrà tra i più discussi lavori di uno dei registi più affascinanti del panorama cinematografico americano.