A bordo del veicolo vi sono il milionario Richard (Kevin Janssens) e la sua fidanzata Jen (Matilda Lutz), di qualche anno più piccola di lui. I due decidono di passare un fine settimana in una lussuosa villa isolata nel deserto, in attesa degli amici di Richard, con cui l’uomo ha organizzato la tradizionale battuta di caccia. Le cose prenderanno una terribile piega quando Jen verrà violentata da uno dei ragazzi. Richard si limita a offrirle una somma di denaro e un’alternativa per dimenticare la violenza subita, ma Jen rifiuta e fugge nel deserto, braccata dai tre ragazzi. Con uno stratagemma, Richard spinge Jen giù per un dirupo. Ha inizio la vendetta della donna.
Revenge, primo rape and revenge a essere diretto da una regista donna, la francese Coralie Fargeat, ha avuto la sua anteprima mondiale nella sezione Midnight Madness del Toronto Film Festival, e in seguito presentato al Sundance Film Festival. Le immagini che aprono l’opera sono piuttosto esplicative: una fotografia satura contorna un rallenty che accompagna le sinuose curve di Jen mentre scende dall’elicottero. I due si apprestano a fare il loro ingresso in una villa ultramoderna dalle vetrate azzurre e magenta. L’uomo non parla, ma con un solo sguardo riesce a ottenere le attenzioni della sua lolita dagli shorts inguinali. A differenza del villain Richard, Jen rimarrà corpo passivo quasi privo di sentimenti, pensieri e opinioni. Ciò che alimenta l’immaginario del genere maschile è un’iconografia che, tradotta in linguaggio filmico, parifica il corpo della donna a un giocattolo, esibito da un dominatore patriarcale che prima lo possiede, poi getta quello che ne resta in pasto agli astanti del suo stesso sesso.
Il film osa quando sfrutta il potenziale del genere horror, e funziona egregiamente. La seconda parte, che simboleggia la maturità di Jen attraverso una rinascita, seppur poco credibile sul piano narrativo, è un’arena di sangue, dove a scandire il ritmo dell’opera sono troncamenti, amputazioni e fiumi di sangue. Meno efficace la sua componente thriller, dalle dinamiche scontate nel primo atto e in chiusura. Ci sarebbe, tuttavia, una potenziale chiave di lettura che porterebbe a vedere l’opera di Fargeat come una sorta di metafora di genere degli odierni movimenti sociali. Come diversi film appartenenti alla categoria, o che ne hanno saggiato alcuni elementi tipici per provare a ricavarne alcune riflessioni, Revenge ha per baricentro il concetto di rovesciamento di ruolo, che si sposa alla perfezione con il genere scelto.
Tutto potrebbe sembrare prevedibile, e in parte lo è, ma la regista applica due strategie che rompono le convenzioni. In primo luogo sceglie di andare ben oltre le esagerazioni tipiche del genere e ferisce Jen così gravemente da rendere soprannaturale la sua sopravvivenza. Poi ci infila una sequenza dove la ragazza si sistema la ferita con una lattina di birra incandescente, mentre il logo della marca diventa un marchio sulla sua pelle. L’estetica così viscerale è a metà tra l’exploitation e il femminismo, due cose in aperto contrasto. La regista utilizza un linguaggio fatto di colori accesi e voyeurismo ossessivo, firmando con gran classe un’opera che, prima di tutto, provoca sul piano intellettuale.