Per chi mi conosce, faccio parte di quel ristretto gruppo che, pur riconoscendo l’immenso valore di Metal Gear Solid 3: Snake Eater, ha sempre avuto un debole per Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty tra i capitoli usciti su PS1 e PS2. Quest’ultimo resta il titolo più significativo della serie, sia per la rivelazione della storia di Naked Snake, sia per i traguardi tecnici raggiunti, ma la magia di Sons of Liberty e della costruzione di quel gioco per me rimane ad oggi indelebile nella mente. Sentimentalismi a parte, Konami ha deciso di riportarlo in vita in una veste nuova, con Metal Gear Solid Delta: Snake Eater: scopriamo insieme il remake nella nostra recensione.
Metal Gear Solid Delta: Snake Eater ci porta in un contesto narrativo che mescola intrighi politici, conflitti internazionali e missioni sotto copertura, senza mai dimenticare la dimensione umana del suo protagonista. La storia si sviluppa tra foreste, basi militari e scenari di guerra fredda, con un intreccio che alterna azione, tensione e riflessioni personali. Non serve conoscere i capitoli precedenti per godersi la vicenda, perché il gioco costruisce un racconto capace di reggersi da solo, pur facendo parte di una saga più ampia e complessa.
Rispetto ai primi due capitoli, che avevano uno stile più cupo, quasi claustrofobico, con missioni ambientate in strutture chiuse e intrise di paranoia tecnologica, Metal Gear Solid 3 sceglie un tono più vicino allo spionaggio classico di James Bond. Ci sono le foreste esotiche al posto dei corridoi metallici, i gadget che strizzano l’occhio alle invenzioni dell’MI6 e persino personaggi che sembrano usciti da un’enciclopedia dei villain bondiana. Non mancano battute e citazioni metanarrative che giocano con il mito di 007, un po’ per omaggio e un po’ per ironia, creando un’atmosfera sospesa tra serietà drammatica e consapevole leggerezza.
Un remake che non vuole cambiare nulla
Quando ci si approccia a Metal Gear Solid Delta: Snake Eater, si capisce subito quale fosse l’intenzione di Konami: riportare fedelmente l’opera del 2004, senza stravolgimenti, senza reinterpretazioni e soprattutto senza rischi. Ogni elemento della storia, dalle cutscene alle battute, passando per le pause di silenzio e i dialoghi criptici, è identico all’originale. Persino i bug storici del gioco sono stati mantenuti, a conferma di un approccio filologico al limite dell’ossessione.

L’unica differenza sostanziale rispetto al passato riguarda il comparto tecnico. Audio e video sono stati completamente rifatti, con texture ad altissima risoluzione, modelli poligonali ricostruiti da zero e un doppiaggio che sfrutta l’opera originale, rinfrescata per l’occasione. Il risultato è un titolo che visivamente si colloca nella modernità, pur conservando il cuore di ciò che fu.
Il gameplay, invece, si presenta in due varianti: la Modalità Classica, con la telecamera fissa dell’originale, e la Modalità Moderna, che invece adotta una visuale dietro la spalla più vicina agli standard contemporanei. Una scelta interessante che permette al giocatore di approcciare il titolo con due sensibilità differenti, ma che al tempo stesso rivela quanto tutto il resto sia rimasto ancorato al passato.

Tra nostalgia e modernità
A livello di contenuti, il remake non aggiunge nulla di sostanziale rispetto al materiale originale. Ci sono, certo, alcuni ritocchi nella quality of life, come le scorciatoie per le mimetiche, ma si tratta di dettagli marginali seppur interessanti. Tutto il resto resta invariato: stesso ritmo, stesse boss fight e stessa struttura.
In particolare, le battaglie contro i boss rivelano quanto la telecamera abbia un ruolo fondamentale. Nel vecchio MGS3 la difficoltà derivava anche dal dover combattere con la visuale limitata; con la telecamera libera della Modalità Moderna, queste sezioni risultano meno complesse, seppur sempre spettacolari. È un cambiamento che non altera la sostanza, ma che inevitabilmente modifica la percezione della sfida.
Non mancano però le chicche storiche. Konami ha riproposto anche gli easter egg più assurdi dell’originale, dal Theater Mode segreto al minigioco Guy Savage, quest’ultimo persino aggiornato più di quanto sia stato fatto col gioco base. Un segnale chiaro: l’operazione Delta è, prima di tutto, un atto di rispetto verso la memoria del titolo che segnò un’intera generazione.

Il peso dell’eredità di Kojima
Fin dai primi minuti, il gioco ci ricorda costantemente che si tratta di un rifacimento dell’opera di Hideo Kojima. Non a caso, i credits sottolineano più volte l’origine del progetto, come se Konami volesse ribadire di non essersi appropriata indebitamente di un universo narrativo tanto complesso.
Questa scelta di partire da Metal Gear Solid 3 per la linea di remake non è casuale. Parliamo infatti di uno degli episodi più amati e centrali della saga, tanto sul piano narrativo quanto su quello tematico. Naked Snake e la sua evoluzione rappresentano un punto cardine della mitologia di Metal Gear, e riportare in auge questa storia significa anche offrire a nuove generazioni un accesso privilegiato al cuore della serie.
Eppure, c’è un rovescio della medaglia. Kojima aveva l’abitudine di riempire i suoi giochi di riferimenti, autocitazioni e rimandi ad altri capitoli. Tutto ciò rimane intatto anche in Delta, ma chi si avvicina per la prima volta alla saga rischia di non cogliere gran parte di queste sfumature. Forse un piccolo glossario interno avrebbe reso l’esperienza più accessibile, senza snaturare l’opera.

La nostalgia come arma a doppio taglio
Dal punto di vista concettuale, Metal Gear Solid Delta: Snake Eater è un’operazione di pura nostalgia. Per chi ha amato l’originale, ritrovarsi immerso nelle foreste, nelle basi nemiche e nei dialoghi carichi di tensione rappresenta un tuffo nel passato irresistibile. L’opera originale reggeva già bene grazie alla Collection, ma oggi può essere rivissuta con una veste tecnica completamente rinnovata.
Il problema è che negli ultimi anni abbiamo assistito a remake che hanno rielaborato in profondità i giochi di partenza. Pensiamo a quanto si è riuscito a fare con Resident Evil 2, Final Fantasy VII Remake o anche il surival horror sci-fi per eccellenza Dead Space: tutti titoli che hanno reinterpretato l’opera madre, creando qualcosa di nuovo pur nel rispetto dell’originale. Al confronto, Delta può sembrare un progetto conservativo, incapace di sorprendere chi conosce a memoria ogni segreto del titolo del 2004.
In questo senso, la community dei giocatori si dividerà di conseguenza in due fazioni: da un lato i neofiti, che potranno finalmente vivere la storia di Snake con una qualità tecnica eccezionale; dall’altro i veterani, che rischiano di trovare il tutto un po’ ridondante. Non ci sono nuovi colpi di scena né aggiunte capaci di riscrivere l’esperienza: Delta è esattamente ciò che promette, né più né meno.

Sopravvivenza e libertà di approccio
Nonostante la sua natura filologica, il gioco riesce ancora a stupire per la modernità delle idee che Kojima e il suo team introdussero vent’anni fa. Le dinamiche survival legate alla cura delle ferite, la caccia per procurarsi cibo, la gestione dell’equipaggiamento: tutti elementi che all’epoca erano avveniristici e che oggi, riveduti con una veste tecnica aggiornata, risultano ancora intriganti (soprattutto considerato che si tratta di dinamiche ormai sparse in quasi tutti i giochi).
Il bello di Snake Eater è sempre stato quello di offrire al giocatore diverse strade per raggiungere l’obiettivo. Uccidere o stordire i nemici, nascondersi o affrontarli, usare le risorse del terreno o improvvisare: la libertà di approccio resta il vero punto di forza, e in Delta questa filosofia viene preservata senza compromessi.
A volte, anzi, il rifacimento è così fedele che sorge spontanea una domanda: quella particolare idea geniale apparteneva già all’originale, o è stata aggiunta da Konami in questa nuova versione? Un dubbio che testimonia quanto l’opera madre fosse avanti rispetto ai suoi tempi.

Extra, multiplayer e omaggi
Accanto alla campagna principale, il gioco propone alcuni contenuti aggiuntivi che strizzano l’occhio al passato. È tornata la divertente modalità Snake vs Scimmia, già presente nell’originale, e in futuro arriverà la modalità multiplayer Fox Hunt, pensata come esperienza separata.
Tutti questi elementi contribuiscono a creare un pacchetto ricco e variegato, ma sempre fedele all’anima originale. La volontà di Konami è chiara: non reinventare, ma omaggiare. Non sorprende quindi che più volte, nei vari crediti, venga ricordato il contributo non solo del già citato Kojima (che quest’anno ha mostrato di nuovo le sue capacità con Death Stranding 2), ma anche di artisti come Yoji Shinkawa e di tutto il team che rese MGS3 una leggenda.
Metal Gear Solid Delta: Snake Eater è un remake particolare, quasi unico nel suo genere. Non punta a reinterpretare, ma a ricostruire, è un’opera di conservazione videoludica, che vuole portare nel presente un titolo fondamentale della storia dei videogiochi.
Il risultato è un’esperienza spettacolare dal punto di vista tecnico, fedele fino all’eccesso e capace di restituire la grandezza di Naked Snake alle nuove generazioni. Al tempo stesso, però, la sua natura immutata rischia di lasciare insoddisfatti coloro che cercavano qualcosa di nuovo, una scintilla in grado di rendere inedito ciò che già conoscevano a memoria.
In definitiva, Metal Gear Solid Delta: Snake Eater è un omaggio impeccabile, rispettoso e curato, che porta con sé tutta la grandezza e i limiti di un’operazione così conservativa. Per chi non ha mai vissuto MGS3, è un’occasione imperdibile. Per chi invece lo ha già giocato e amato, sarà un ritorno nostalgico, emozionante ma privo di sorprese. Ed è forse proprio questo il più grande pregio e difetto dell’opera: essere un rifacimento perfetto, e nulla più.