Ci sono giochi che nascono da idee precise e altri che sono costretti giocoforza a giostrarsi nel marasma delle leggi di mercaro, venendo realizzati prima di tutto con precisi scopi di marketing alle spalle. Goichi Suda questo lo sa bene, tanto che non ha mai nascosto il fatto che Travis Strikes Again non fosse de facto No More Heroes 3. Cosa questa che ha spinto i fan a essere piuttosto scettici e sospettosi circa il risulato finale. Ora, con il gioco disponibile sugli scaffali virtuali e non di Nintendo Switch, possiamo finalmente capire coi nostri occhi, mani e orecchie se questa sorta di “prova generale” verso NMH3 vale il suo (esiguo) prezzo d’acquisto. E soprattutto constatare se Suda51 non ha perso il suo geniale, e un po’ grottesco, tocco artistico.
Insert Coin
Partiamo subito col dire una cosa: io a Suda voglio un gran bene. E Travis Strikes Again: No More Heroes è un gioco assolutamente in linea con il suo spirito scanzonato e un po’ folle. Il buon Goichi ha tirato fuori dalla sua mente uno spin-off che altri non è che una summa delle pazzie ludiche di cui i sui titoli sono pervasi sin da Killer7 (o forse anche prima). Nel DNA del gioco c’è una gran quantità di No More Heroes, visto che altri non è che un hack ‘n’ slash inquadrato spesso e volentieri con una funzionale visuale a volo d’uccello. E se la “trama” è ovviamente solo un pretesto – il malvagio Bad Man deve vendicare la morte di sua figlia Charlotte occorsa per mano di Travis Touchdown – è il resto a travolgere (nei limiti) il giocatore.
La quarta parete viene spesso e volentieri fatta letteralmente a pezzi da delle trovate al limite del surreale, coinvolgendo direttamente il protagonista al di là dello schermo della piattaforma ibrida. E se il tema delle “console maledette” farà proprio da traino per tutta una serie di follie in perfetto stile Suda51 (non ho intenzione di rovinarvi le sorprese del gioco), dove Travis Strikes Again inciampa è quando lo si analizza sotto il freddo profilo ludico.
Dio perdona, Travis no
Questo perché, di nuovo, non essendo un capitolo della serie regolare di NMH il titolo Grasshopper soffre una cronica mancanza di rifiniture. Dal gameplay – pericolosamente ridondante sulla lunga distanza – al comparto tecnico, il quale al netto delle curiosità estetiche e di alcune eccellenti trovate visive (specie quando il gioco si trasforma in un classico a 8-bit, tanto per dirne una), poligonalmente parlando ci troviamo di fronte a un titolo del secolo scorso. Se non precedente.
Senza contare che il set di mosse in dotazione al protagonista (o ai protagonisti, nel caso si optasse per la modalità cooperativa per due giocatori) è piuttosto basilare, composto perlopiù da un attacco leggero, uno pesante, uno in salto e da una combo caricata al massimo della potenza, il tutto all’interno di stage asfissiati dalla struttura “corridoio/stanzone” ripetuta ad libitum. Al che direte “al diavolo, è Suda51! Queste cose non sono mai state troppo importanti nei suoi giochi.” Cosa sulla quale sarei anche d’accordo, se non fosse che tutti questi limiti tecnici si riflettono sulla fruibilità generale, sul mediocre andante. Badate bene, però: non si tratta di un’accusa volta a stroncare il gioco. Anzi, tutt’altro. Si tratta di andare a sottolineare dei difetti ben precisi che – nascosti da una dozzina di trucchetti in-game più o meno scenici – inganneranno l’occhio meno esperto.
Dopotutto, va bene così: Travis Strikes Again è anche e soprattutto un omaggio ai titoli indie realizzati con un budget ridotto (per non dire inesistente), tanto che la cosa è scandita a chiare lettere più e più volte. E se Suda51 si nasconde dietro la cosa per mettere in mostra e ironizzare sui limiti tecnici e strutturali del suo stesso prodotto, la cosa è perdonabile solo fino a un certo punto. Tutto da buttare, quindi? Macché. Al netto delle mancanze più o meno evidenti, il titolo Grasshopper Manufacture è un gioco che ama divertire e divertirsi, cosa questa più unica che rara nel panorama videoludico odierno. Peccato per quel saporaccio in bocca tipico del “vorrei, ma non posso”. Magari alla prossima, Goichi.